Il senso dei musei

Nel 1940 l’artista americano Joseph Cornell iniziò una serie di opere chiamate “Museum”: scatole di legno contenenti un certo numero di bottigliette di vetro, recanti un’etichetta con su scritto “Museum” e un elenco dei contenuti appiccicato sul coperchio. Altre racchiudevano cilindri trasparenti di plastica con fogli arrotolati con le storie delle antiche civiltà, come quella egiziana. Una perfetta rappresentazione metaforica del Museo. Del resto, tutte le sue “scatole” (shadow boxes, scatole ombra) sono delle piccole “camere delle meraviglie” e protipi di musei. Quei contenitori, chiusi da un vetro all’interno del quale Cornell assemblava le “reliquie”, facevano parte della sua mastodontica collezione personale di oggetti bizzarri trovati per strada o acquistati dai rigattieri.

I musei derivano proprio dalle “camere delle meraviglie”. La Wunderkammer è lo scrigno delle collezioni, la vetrina che il signore mostrava ad amici e ospiti per impressionarli e stupirli. Era chiamata anche “Stanza dell’arte” (Kunstkammer): ma per “arte” si intendeva non solo l’arte figurativa, ma anche i prodotti della tecnica, i manufatti. Per meravigliare, le cose debbono essere “mai viste”, venire da lontano (avere il “pathos della distanza”): lontane nel tempo, antiche (archeologia) o lontane geograficamente e culturalmente (etnografia, botanica). Quelli erano luoghi stracarichi di oggetti e opere d’arte, come si vede bene nel quadro di Frans Francken il Giovane, Cabinet d’un collectionneur (1636). Testimoniavano dell’amore del sapere di signori, che si dilettavano nell’occuparsi di astrologia, matematica e scienze. Il collezionismo nasce appunto da questi interessi: studiando l’astrologia i signori collezionavano mappamondi, sfere armillari ecc; occupandosi di scienza, raccoglievano strani animali imbalsamati, importati da terre lontane. La Wunderkammer, come sostiene lo storico delle idee polacco Krzystof Pomian, sono all’origine del Museo in senso moderno: un luogo di raccolta, conservazione ed esposizione, perché Museo infatti è: “ogni insieme di oggetti naturali o artificiali, mantenuti temporaneamente o definitivamente fuori del circuito di attività economiche, soggetti a una protezione speciale in un luogo chiuso sistemato a tale scopo, ed esposti allo sguardo del pubblico”.

Le Camere delle meraviglie, sono come la Filosofia, l’espressione dell’“amore del sapere”: ordinate o alla rinfusa vi si raccolgono gli oggetti che rimandano ai saperi più strani e lontani. Sono oggetti per suscitare meraviglia e rendono evidente lo stato sociale dei proprietari. Nell’Europa del Tre-Quattrocento le raccolte di privati iniziarono a “concorrere” con i tesori conservati nelle cattedrali e nelle grandi abbazie, così come quelli accumulati nei palazzi signorili e nelle armerie. Le prime Wunderkammer vere e proprie furono, probabilmente, quella (iniziata nel 1390) da Jean Valois, duca di Berry, fratello di Carlo V. Poi vennero quella  allestita dall’arciduca  Ferdinando II del Tirolo (1529-1595), nel 1564, nel castello di Ambras, presso Innsbruck e il Museo creato da padre Athanasius Kircher nel Collegio Romano, a Roma, nel 1651. Ma lo Studiolo (1570) di Francesco I de Medici (seminascosto a fianco del Salone dei Cinquecnto in Palazzo Vecchio), e poi la Tribuna degli Uffizi (1584-1601), assieme alla Camera delle meraviglie di Rodolfo II nel Castello di Praga (1587-1605), sono la forma più perfetta e articolata di “Camera delle meraviglie”, dove il connubio tra arte (pittura e scultura) e mirabilia funziona sotto l’insegna dell’alchimia.

Anche per questo, quando col XIX secolo le collezioni private confluirono un po’ alla volta nei grandi Musei, essi divennero veri e propri luoghi della memoria fantastica, case dell’immaginario. Come scrisse Emilio Tadini: “I musei sono la dimensione in cui durano e vanno avanti i sogni attraverso i quali uomini simili a noi hanno cercato disperatamente di dare un senso alla realtà, di innalzare valori nel deserto del Niente. Nel museo, un’entità sovrana come la Bellezza, ci si manifesta in modo chiaro, distinto, indubitabile” (prefazione a Helen Langdon, Invito ai Musei del mondo, Olivares, 1996).

Oggi, i musei sono soggetti ai flussi altalenanti delle mode. I vecchi edifici che li ospitano, in molti casi, sono spesso degradati e inadeguati a sopportare il turismo di massa. I nuovi edifici sembrano sovente non tener conto della loro funzione di contenitori per l’esposizione e la fruizione di opere: appaiono come stravaganti forme architettoniche, pensati da architetti famosi come opere d’arte in sé. Soltanto pochissimi musei (tra quelli vecchi, grandi e famosi) riescono a sopravvivere finanziariamente con i proventi dei biglietti e delle donazioni. Come accade soprattutto ai nuovi musei, debbono constatare che è impossibile basarsi soltanto sulla collezione permanente: si debbono prevedere spazi adeguati per mostre temporanee che permettano di garantire un flusso medio costante di visitatori. Ma, al di là dei problemi strutturali e materiali (tra i quali non si può dimenticare la cronica mancanza di personale qualificato e di fondi per nuove acquisizioni), urge un ripensamento generale della funzione e della missione dei musei nelle società contemporanee. Per quanto riguarda i musei grandi e famosi, presi d’assalto quotidianamente dai turisti, c’è da chiedersi: fino a quanto i visitatori potranno crescere?; fino a quando il museo e il suo patrimonio potranno sostenere afflussi così consistenti?; fino a quando si potrà tollerare che straordinarie opere d’arte debbano esser guardate da dietro una selva di teste?; fino a quando si dovrà combattere per far passare l’idea che un museo è, prima di tutto, luogo d’educazione? A ragione, un grande direttore degli Uffizi, nel Settecento, reputava importante che “i giovani venissero in Galleria a prendere dimestichezza col ‘bello’, giacché, così facendo, avrebbero poi saputo riconoscerlo in ogni ambito della vita, con beneficio di tutti”.

Francesco Cataluccio

Ha studiato filosofia e letteratura a Firenze e Varsavia. Ha curato le opere di Witold Gombrowicz e Bruno Schulz. Dal 1989 ha lavorato nell’editoria e oggi si occupa della Fondazione GARIWO-Foresta dei Giusti. Tra le sue pubblicazioni: Immaturità. La malattia del nostro tempo (Einaudi 2004; nuova ed. ampliata: 2014); Vado a vedere se di là è meglio (Sellerio 2010); Che fine faranno i libri? (Nottetempo 2010); Chernobyl (Sellerio 2011); L’ambaradan delle quisquiglie (Sellerio 2012); La memoria degli Uffizi (Sellerio 2013); In occasione dell’epidemia (Edizioni Casagrande 2020); Non c’è nessuna Itaca. Viaggio in Lituania (Humboldt Books 2022).