Accadde una volta in Ucraina

Alcuni anni fa scrissi un libretto sulla catastrofe della centrale nucleare in Ucraina (Chernobyl, Selerio 2011) che, facendo la storia di quel luogo e di quella regione stretta tra la Russia e la Polonia, mostrava inevitabilmente come laggiù la Storia si fosse accanita, nei secoli, con una ferocia imparagonabile alle altre parti d’Europa. E oggi stiamo rischiando che la macchina delle stragi si rimetta in moto. Le prime avvisaglie e le prime vittime ci sono già.

«Quello che accadde tra il 1930 e il 1945 in Ucraina – mi disse nel 1988 un’anziana signora col fazzoletto a fiori incontrata alla fermata dell’autobus vicino al Giardino Botanico di Kiev – non fu opera di Stalin e Hitler, ma del diavolo!». Lo stesso Vasilij S. Grossman sembra pensarlo quando, in Tutto scorre (1970; trad. it. Adelphi 1987), scrive: «Chi firmò quell’assassinio di massa? Spesso io penso: che non sia stato Stalin? Un ordine così non l’aveva mai firmato né lo zar, né i tartari, né gli occupanti tedeschi. Un ordine che diceva: uccidete per fame i contadini dell’Ucraina, del Don, del Kunan’, uccidete loro e i loro bambini».

Fu in effetti qualcosa di infernale, come i massacri che compirono un decennio più tardi i tedeschi, ex alleati dei sovietici, con lo sciagurato Patto Ribbentrop-Molotov. In quella parte d’Europa si compirono per decenni delle mattanze da prova generale per la fine del mondo: scomparvero gli ebrei e la loro cultura, e fu cancellato un quinto degli ucraini e il loro antico universo contadino, oltre a migliaia di polacchi, ruteni e zingari.

Dopo la liquidazione dei kulaki e dei contadini ucraini, toccò alla popolazione polacca esser estirpata dalla regione. Nel 1936, i polacchi furono quasi tutti deportati durante gli sgomberi. Sotto il dominio sovietico, l’atavica ostilità tra ucraini, polacchi ed ebrei crebbe ancora di più, trovando poi una violenta possibilità di sfogo dopo il 1939. L’ex partigiano polacco Stefan Dąmski, nella sua confessione (Egzecutor, Karta, Warszawa 2010), scritta prima di spararsi pochi anni fa un colpo in testa, dove ricorda di esser stato l’esecutore, per conto dell’esercito partigiano (AK), di molte condanne a morte, anche di contadini ucraini, autori o complici di delitti contro i polacchi, constata amaramente: «Non so chi odi di più chi: gli ucraini i polacchi, o i polacchi gli ucraini». E racconta come gli ucraini compirono molti massacri nelle campagne abitate dai polacchi e come i partigiani polacchi fecero vendette altrettanto indiscriminate.

Katja Petrowskaja, giornalista di origine ucraina, da molti anni residente a Berlino, ostinata nel ricercare tracce della sua famiglia ebraica in parte cancellata dal nazismo e dallo stalinismo, ha scritto un libro, da poco tradotto in italiano, che ricapitola bene tutto questo: Forse Esther (Adelphi).
Un paradossale dialogo, che chiarisce il titolo, si svolge, nel libro, tra lei e suo padre, Miron, rimasto a Kiev: «Credo si chiamasse Esther. Sì, forse Esther. Avevo due nonne, e una delle due si chiamava Esther, proprio così». «Come, forse? Esclamai scandalizzata, non sai come si chiamava tua nonna?». «Non l’ho mai chiamata per nome, replicò mio padre, dicevo babuška, e i miei genitori dicevano mamma». Il padre dirà poi alla figlia, quasi a giustificarsi: «Avrei sempre voluto occuparmi di storia, ma non avrei mai voluto che la storia si occupasse di me».

Katja Petrowskaja si definisce «discendente di quel popolo ebraico cui mi lega ormai solo la ricerca delle pietre tombali mancanti» e ci dà conto delle sue ostinate ricerche famigliari in un libro bellissimo, commovente, a volte persino ironico, pieno di storie inimmaginabili, scritto con grande maturità, in tedesco (tanto da meritarsi, nel 2013, il prestigioso Premio Ingeborg Bachmann), e scandito in piccoli capitoli, spesso punteggiati da malinconiche foto in bianco e nero, che sembrano perfette tessere di un mosaico di racconti (un capolavoro è, ad esempio, Scritte perdute, sulle pietre tombali della cittadina polacca di Kalisz). Katja scopre a fatica di avere alle spalle una ramificata saga famigliare a suo modo tragicomica, dove si intrecciano: morti più o meno inconsapevoli; persecuzioni; fughe; rimozioni; inganni; ideali falliti; folli attentati; arditi programmi pedagogici per il recupero dei sordomuti; una pianta di ficus; bellezze rapinose e tanto oblio…
Nelle sue ricerche addietro nel tempo, in una Polonia e una Ucraina appena uscite dalla cappa del comunismo e soggette a una rapida e caotica mutazione, cercando di non pensare più a quel che è accaduto, Katja deve fare i conti con una storia difficile e sfuggente come una saponetta bagnata: «Il passato sabotava le mie aspettative, mi sfuggiva di mano e, uno dopo l’altro, compiva passi falsi (…). Avevo la conferma del mio timore, quello di non avere alcun potere sul passato: il passato vive come vuole , riesce solo a non morire».

La bella e antica Kiev, città natale di Katja (bizzarramente gemellata con la mia Firenze), dicono sia stata «il luogo della più grande strage della Shoah, perpetrata in soli due giorni». Ne è memoria Babij Jar, ed è lì che la storia della famiglia di Kaja converge e trova un suo flebile filo, perché lì la bisnonna Esther è stata ammazzata. Il 19 settembre 1941 i tedeschi entrarono a Kiev. Il giorno seguente affissero sui muri dei manifesti in ucraino con scritto esplicitamente: «Ebrei, comunisti, commissari e partigiani saranno eliminati». Per ogni partigiano o comunista denunciato veniva promessa una taglia di 200 rubli. Il 29 settembre, che era il giorno dell’Espiazione (Yom Kippur), fu ordinato agli ebrei di radunarsi per essere trasferiti fuori città. Quelli che obbedirono furono portati in periferia, in un territorio desolato di colline brulle e gole in ripida pendenza: Babij Jar (o Babi Yar). A ondate, 33.771 uomini, donne e bambini vennero fatti spogliare e allineare sul ciglio della gola. Furono quindi fucilati e gettati giù. Di tanto in tanto, dei soldati si calavano sulla montagna di cadaveri per verificare con le baionette che non ci fossero rimasti dei vivi. Nel settembre del 1943, in previsione della loro ritirata da Kiev, i tedeschi cercarono di cancellare le tracce del massacro, dissotterrando i morti e facendoli bruciare da un gruppo di prigionieri. Fino al 1990 in quel luogo ci fu solo un brutto monumento che faceva pensare che là fossero stati ammazzati dei russi. Su questo buco nero della memoria scrisse un celebre poema il poeta russo di Evgenij A. Evtušenko (i cui versi aprono e danno il titolo alla Tredicesima Sinfonia di Dmitrij D. Šostakovič, del 1962).
Katja Petrowskaja sostiene giustamente che «ogni essere umano ha qualcosa in questo luogo».

Foto: Vuhlehirsk, Ucraina, 6 febbraio 2015 (AP Photo/Petr David Josek, File)

Francesco Cataluccio

Ha studiato filosofia e letteratura a Firenze e Varsavia. Ha curato le opere di Witold Gombrowicz e Bruno Schulz. Dal 1989 ha lavorato nell’editoria e oggi si occupa della Fondazione GARIWO-Foresta dei Giusti. Tra le sue pubblicazioni: Immaturità. La malattia del nostro tempo (Einaudi 2004; nuova ed. ampliata: 2014); Vado a vedere se di là è meglio (Sellerio 2010); Che fine faranno i libri? (Nottetempo 2010); Chernobyl (Sellerio 2011); L’ambaradan delle quisquiglie (Sellerio 2012); La memoria degli Uffizi (Sellerio 2013); In occasione dell’epidemia (Edizioni Casagrande 2020); Non c’è nessuna Itaca. Viaggio in Lituania (Humboldt Books 2022).