Giustiniano, Varufakis e la peste

“Per il momento, a Bisanzio, non era facile veder girare qualcuno per le strade, perché tutti coloro che avevano la fortuna di essere in salute rimanevano chiusi in casa, o a curare i malati o a piangere i morti… Ogni attività era ferma, tutti gli artigiani avevano abbandonato la loro arte, e così accadeva di ogni altra specie di lavoro che ciascuno avesse per le mani. Di conseguenza, in quella città che era stata veramente sovrabbondante di ogni genere di beni, si era diffusa una spaventosa carestia”.

Tra i racconti di lockdown a tema epidemico spicca la fase iniziale e acuta (542-543 d.C.) della “peste di Giustiniano”, descritta dallo storico Procopio di Cesarea (Guerre 2, 23) con sinistra precisione sulle cifre dei caduti (cinquemila al giorno di media nella sola Costantinopoli, con picchi di diecimila), forse esagerate ma così terribili da essere citate con apotropaico sgomento all’inizio della Peste di Camus (l’equivalente – ragiona il protagonista Rieux – del pubblico di cinque cinemi pieni). Procopio interpretava la pandemia come frutto della collera divina, e non sapeva ancora che essa, infuriando in varie ondate per altri due secoli, era destinata a mutare irreversibilmente i destini dell’Occidente, sul piano demografico e politico.

Due i problemi eterni posti dal morbo: gestire i contagiati e affrontare la carestia; problemi, nella sostanza, di solidarietà. Se oggi chiamiamo gli ospedali “nosocomi” lo dobbiamo a un termine del greco tardo (nosokomèin, “prestare soccorso ai malati”) che fa capolino in un’altra pestilenza, quella cosiddetta “di Cipriano” iniziata nel 249 d.C. In uno struggente racconto, lo storico Eusebio di Cesarea (Storia ecclesiastica 7, 22) narra come il morbo fu affrontato dalla comunità cristiana di Alessandria d’Egitto: “La gran parte dei nostri fratelli, per eccesso di carità e amore fraterno, non si risparmiarono e si tennero vicini gli uni agli altri, visitando i malati senza precauzioni, accudendoli senza posa, curandoli in Cristo, e andandosene insieme a loro in piena letizia… Molti, dopo aver assistito [appunto, nosokomèsantes] e guarito altri, decedevano essi stessi, trasferendo su di sé la morte di quelli… [ai morti] chiudevano gli occhi e la bocca, li trasportavano a spalla e li seppellivano, unendosi e abbracciandosi a loro, lavandoli e vestendoli, e finendo poco dopo per ottenere uguale sorte”.

Questa narrazione ci interroga ancora oggi, quando – cedendo a un comprensibile e malcelato senso di colpa – non ci diamo pace dei malati che arrivano nudi e senza affetti all’ora del trapasso; quando pensiamo che non potremo garantire loro riti funebri (una prospettiva che ci ripugnerebbe in qualunque altra situazione, perfino lungo le trincee); soprattutto, quando apprendiamo con sgomento e rabbia delle dozzine di medici contagiati (talora con conseguenze fatali) in corsia, negli studi, negli ambulatori. Eusebio, anche nelle sue scelte stilistiche, sbandiera il martirio dei caregivers cristiani (lo chiama proprio così: martirio, in un’epoca in cui il concetto aveva una sua vivida attualità) come modello trionfale e alternativo rispetto a quello delle pestilenze pagane (Atene, Cartagine, Roma), in cui secondo gli storici antichi, da Tucidide a Dionigi di Alicarnasso, ognuno pensava a salvarsi, i malati venivano abbandonati a se stessi, i morti lasciati per strada o lanciati sulle pire o scaraventati nei burroni.

Eccoci al punto: noi oggi, eredi consapevoli di un ideale di carità che è innegabilmente anche cristiano, ci sforziamo di seguire quei valori di abnegazione e assistenza che Eusebio esalta come superiori; ma nel contempo – se per le sepolture e l’ultimo addio non abbiamo trovato rimedio – sapremo sventare almeno un tristo (e in larga parte evitabile) destino di sacrificio per gli “angeli” di Bergamo, di Parma, di Torino? Chi ha amici o conoscenti tra medici e infermieri (o chi ha letto la terribile lettera degli ospedalieri bergamaschi al New England Journal of Medicine del 25 marzo) sa bene che in troppi casi – e non da ora – la risposta è negativa, in un Paese la cui classe dirigente ha considerato per decenni la sanità pubblica (dal finanziamento dei nosocomi all’organizzazione della rete dei medici di base) come un coacervo di spesa improduttiva. Sventurato il Paese che ha bisogno di martiri.

La carestia di cui parlava Procopio nel brano citato in apertura fu – nel breve termine – una vera mazzata per i piani bellici e politici dell’imperatore Giustiniano, il quale nonostante la desolazione “non usò alcun riguardo ai proprietari in rovina: il tributo annuo non smetteva d’esigerlo, non già nella misura imposta a ciascuno, ma con in più la parte dei vicini morti” (Storia segreta 23, 20). Assistiamo oggi, guardando a quel più vasto impero democratico chiamato Unione Europea, a iniezioni di liquidità, sospensioni del Patto di stabilità, e consimili misure volte a tamponare l’emergenza. Tuttavia, come si è visto in questi giorni man mano che le dimensioni della catastrofe diventavano più chiare, le vere decisioni di lungo periodo circa la garanzia dell’enorme debito che la crisi sta provocando e provocherà non spettano a istituzioni comunitarie vere e proprie, bensì al coordinamento dei ministri dell’Economia dei singoli Paesi, noto come Eurogruppo. Per singolare coincidenza, proprio la settimana scorsa il sito “Euroleaks” del movimento Mera25 dell’ex ministro greco Yanis Varufakis ha messo online gli audio delle riunioni “confidenziali” tenute da questo stesso organismo, l’Eurogruppo, nel corso dell’estate 2015, all’epoca in cui il nuovo governo di Atene trattò con le istituzioni europee una parziale cancellazione del proprio insostenibile debito in vista di un rilancio del Paese secondo un percorso di cauta espansione e di equo rigore.

Nei giorni dell’attuale reclusione, gli audio di Euroleaks rappresentano un ascolto istruttivo: a fronte delle circostanziate proposte di Varufakis (che non contemplano mai l’uscita dall’euro, e raccomandano anzi uno slancio di fiducia verso un nuovo spirito di condivisione continentale senza il giogo di misure depressive), si possono constatare in presa diretta il tono sprezzante del ministro tedesco Schäuble, la fredda conduzione del presidente olandese Dijssellbloem (quello secondo il quale – memorabile intervista – i popoli del Sud spendono e spandono a vino e donne), le minacce vagamente ricattatorie del ministro finlandese (che elenca come un automa una dopo l’altra le dieci conseguenze del rifiuto greco di firmare un accordo-capestro), le querimonie dei ministri di Slovenia, Austria e Paesi baltici che dichiarano di non poter portare ai loro Parlamenti alcun provvedimento che non contempli un severo memorandum contro la Grecia; e poi, gli imbarazzati richiami a più miti consigli (specie dinanzi all’”azzardo” democratico del referendum indetto da Tsipras nel luglio 2015) da parte di Padoan (Italia), Sapin (Francia), Guindos (Spagna); dulcis in fundo, le parole dei due protagonisti che sono ancora lì: Mario Draghi che protesta per le fughe di notizie e si nasconde dietro ai tecnicismi, e Christine Lagarde (allora capo del FMI) che si sincera dell’aumento dell’IVA e dei ricavi dalle privatizzazioni – ma è pronta anche, tra le righe, a ironizzare sulla reale buona volontà della controparte.

Cinque anni dopo, sappiamo che le scelte di quell’Eurogruppo – che isolò Varufakis e nel giro di poche settimane costrinse Tsipras a fare macchina indietro e ad accettare un terzo, sanguinoso memorandum – hanno approfondito in Grecia una già gravissima sofferenza economica e sociale (in solido: ospedali chiusi, stipendi crollati, assets pubblici svenduti ai privati spesso stranieri), e – se hanno rincuorato i popoli del Nord allergici all’inaffidabilità dei Mediterranei, e perfino i Mediterranei timorosi del (suona oggi grottesco) “contagio greco” – hanno rappresentato un errore sul piano economico e un colpo durissimo alla credibilità del progetto di un’Europa come “casa comune”. Lo attestano, a tacer d’altro, le lacrime di coccodrillo versate negli ultimi mesi dal Financial Times, da un contrito Juncker, e perfino dallo stesso ineffabile Dijsselbloem.

In confronto alla portata della crisi del virus, quelle del debito greco erano briciole: se lo stesso copione si ripeterà anche oggi (le premesse ci sono tutte, per quanto stavolta potrebbe non essere una gang-bang di tutti contro uno), si confermerà l’impietosa analogia di questa Unione con l’inflessibile Giustiniano di Procopio, che anche a fronte della peste più devastante del millennio tirò dritto e non rispettò l’antica consuetudine “che chiunque detenesse l’impero romano abbonasse non solo una volta, ma spesso, a tutti i sudditi i residui dei loro debiti verso lo Stato, perché chi era povero e non aveva di che pagare quegli arretrati non si sentisse sempre con l’acqua alla gola” (Storia segreta 23, 1).

Filippomaria Pontani

Filologo classico a Venezia (Ca’ Foscari), mi occupo di greco da Omero a Kavafis, di manoscritti bizantini, di poesia, di lingua. Sul Post e sul Fatto quotidiano scrivo di scuola e università, di arte e patrimonio culturale, di Europa e Medio Oriente, di venetudine.