Né libertà né coscienza

Badateci, gli stessi politici e giornalisti che allargano le braccia e dicono che «la politica è finita» non hanno detto una parola circa l’escreto politicistico che lo schierarsi pro o contro Nicola Cosentino ha tipicamente rappresentato: ossia una discrezionalità ormai del tutto indipendente dal merito, o meglio un voto che lorsignori hanno espresso senza neppure fingere di aver letto mezza carta. È questo che ha lasciato basiti: che non hanno neppure finto di averla letta, e questo in compagnia di giornalisti ormai divenuti anche più cinici di loro. A Nicola Cosentino, comunque vada oggi, è già andata come andò a Luigi Bisignani e ad Alfonso Papa: colpevoli anzitutto di un timing sfigato.

Ormai non si recita neanche più. Le carte, il merito? Ma per favore: in ballo – si è detto, si è letto – ci sarebbero le alleanze in vista delle amministrative, le elezioni, la tenuta di Monti, i rapporti tra Bossi e Maroni, quelli tra Alfano e gli ex An, baratti vari sulla legge elettorale, persino le tensioni maturate dopo gli investimenti leghisti in Tanzania. Per trovare un parlamentare normale – cioè uno che abbia semplicemente letto le carte, e oggi valuti e voti di conseguenza – occorre andare dai Radicali di Maurizio Turco, gente che paradossalmente è considerata anormale da chi, per avere un’opinione, telefona al capogruppo perché gliene dia una.

Cosicché tocca ai Radicali o ai buffoni – come noi – l’onere di ripetere una lezioncina che evidentemente annoia: ripetere, cioè, che al Parlamento spetterebbe soltanto il compito di valutare se l’arresto di Nicola Cosentino sia necessario per la prosecuzione delle indagini, e se risponda, cioè, ai requisiti per cui l’arresto è stato chiesto; valutare, ancora, se ci sia pericolo di fuga o di inquinamento delle prove, se sia pericoloso socialmente, se ci sia fumus persecutionis da parte dei magistrati: stop, fine, le domande cui rispondere dovrebbero finire qui, assieme a ogni «nodo politico» che può anche essere importante, certo, ma dovrebbe venire dopo.

Montecitorio non è un tribunale, le camere non devono decidere se Tizio sia colpevole o innocente, l’arresto non equivale a colpevolezza, il mancato arresto non è un’assoluzione: le solite cose. E non guardateci, mentre le diciamo, come se fossimo delle anime candide che non sanno come gira il mondo: noi lo sappiamo, sono loro che straparlano di «libertà di coscienza» senza sapere che cosa farsene. Sono loro che ci costringono a sentirci patetici mentre ripetiamo che dovrebbe esserci il carcere solo per i colpevoli accertati da un giudizio, come dicono la Consulta e il Codice e la Costituzione e tutto il diritto d’Occidente: si chiama presunzione di non colpevolezza. Sono loro che dovrebbero oscillare tra cultura della legalità e rispetto delle garanzie, e invece oscillano – a destra come a sinistra – tra il peggior forcaiolismo e il garantismo più peloso.

Filippo Facci

Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia. È autore di Di Pietro, La storia vera