I problemi della sharing economy col turismo

Le forme sempre in evoluzione della sharing economy costituiscono un’innovazione molto utile per i mercati e in particolare per quello del turismo, che fatica a stare al passo con i bisogni sempre nuovi dei viaggiatori. Il successo di Airbnb o Homeaway (con Tripping e Housetrip) presenta però molte criticità, perché queste piattaforme mettono a disposizione del mercato moltissimi alloggi privati non in una prospettiva di mero scambio formulata in maniera innovativa – e quindi complementare al mercato – ma con tariffe concorrenziali e metodi elusivi, che provocano forti contrasti, facendo assomigliare pericolosamente tutto il fenomeno a una forma di concorrenza sleale nei confronti dell’offerta ricettiva regolare, alberghiera e no.

Per quanto riguarda l’offerta di posti letto in alloggi privati, in Italia è possibile aprire un Bed&Breakfast senza grandi difficoltà, con una formula già sperimentata da parecchi anni, grazie alla quale si può offrire ospitalità nella propria casa svolgendo un’attività in forma non imprenditoriale. La legge prevede, infatti, che i ricavi derivanti da un B&B siano considerati dal fisco solo come un sostegno al reddito dei proprietari (e del quale quindi non devono superare una certa percentuale) e che l’attività abbia alcuni limiti, come ad esempio l’obbligo di chiusura per almeno novanta giorni l’anno.

A voler essere precisi, però, quando si parla di regole in materia di turismo, dobbiamo sempre ricordarci che in Italia non vige una sola legge del turismo ma almeno una ventina, poiché la competenza legislativa è regionale e ben possono coesistere norme regionali più stringenti di altre e regole molto diverse da regione a regione. È facile capire quindi come la faccenda si complichi quando parliamo di regolamentare in maniera uniforme le forme di ricettività in Italia, specialmente le più innovative.

I B&B (così come gli agriturismi, le locande, le foresterie e via discorrendo) di fatto, assumono caratteristiche diverse a seconda del luogo in cui si trovano: in Lombardia B&B possono offrire al massimo sei posti letto, altrove di più. A volte è obbligatorio che il proprietario abbia la residenza in quella casa e in altre no, ma in tutti i casi chi ne vuole aprire uno deve seguire un iter burocratico che lo porta in pochi passaggi a essere autorizzato e registrato tra le strutture ricettive. I B&B, inoltre, devono rispettare gli stessi obblighi cui sottostanno le altre strutture ricettive come il versamento della tassa di soggiorno al Comune, se prevista, la segnalazione di tutti gli ospiti alla Questura, la comunicazione dei flussi turistici alla Provincia, tanto per citarne i più indicativi.
La comunicazione alla Questura dei dati anagrafici dei clienti e la data del loro arrivo adempie ovvie esigenze di sicurezza: per chi ospita, per i clienti, la polizia, i vicini di casa. La trasmissione dei flussi turistici (arrivi, numero di notti, provenienza per stato e regione ma non i dati anagrafici) è la base da cui derivano tutte le statistiche del turismo pubblicate da Istat, Unioncamere, Regioni da cui traggono ispirazione tanti articoli che in alta stagione chiedono come una mantra: “Dove sta andando il turismo italiano?” oppure “Piace di più il mare o la montagna?”.

Il boom dell’offerta registrata su piattaforme come Airbnb è spesso «accompagnata dall’elusione delle regole e dalla deregulation delle licenze» come ha scritto Irene Giuntella sul Sole 24 Ore. Chi offre alloggi utilizzando le piattaforme di sharing economy vuole stare spesso fuori dal campo dell’economia tradizionale, non si registra e pertanto non è annoverato tra le strutture ricettive che invece sono sottoposte e garantite dai sistemi di controllo in materia di sicurezza, qualità e promozione. Di conseguenza, non trasmette neppure i flussi turistici alla Provincia, che non saranno consolidati dalla Regione e pubblicati poi da Istat e neppure comunica i dati dei suoi ospiti alla Questura, che quindi non ha alcun controllo sui movimenti di quei viaggiatori nel territorio di sua competenza.

Da assessore al Turismo della Provincia di Pavia, vi porto l’esempio del mio territorio, dove sono attive 414 strutture ricettive per un totale di oltre 8.600 posti letto. Una recente ricerca dell’Università di Pavia ha rilevato che gli alloggi privati presenti sulle piattaforme più importanti (Airbnb e Homeaway) offrono già più di 400 posti letto, dei quali almeno 100 nel capoluogo, così come dichiarato recentemente da Airbnb al quotidiano locale. Stiamo parlando quindi di un aumento del 5% della capacità ricettiva che è arrivato sulle piattaforme on line negli ultimi ventiquattro mesi e di cui nessuno conosce nulla, tanto meno gli standard qualitativi.

Fin qui abbiamo analizzato le criticità legate ai controlli di sicurezza e degli standard di qualità e alle analisi statistiche, ma forse quelle in materia economica sono ancora più rilevanti. I proventi economici non sono dichiarati, ergo è tutta economia sommersa. Alcune simulazioni ipotizzano che il prezzo di una notte in un Airbnb possa essere inferiore anche del 40% rispetto a quello di un B&B regolare, un albergo o un agriturismo di pari livello. E ci sono anche “case da sogno” proposte a cifre da capogiro, senza alcun controllo. È difficile a questo punto negare la slealtà di questo genere di concorrenza, che parte dall’economia di scambio per arrivare in pochi passaggi a delineare quasi un oligopolio futuro delle piattaforme destinato a incidere prima di tutto proprio sulle attività ricettive più piccole e in ambito locale, grazie anche all’utilizzo di questi strumenti da parte di speculatori locali.

Un’indagine della Università Bocconi sull’“Ospitalità alternativa a Milano” a cura di Magda Antonioli Corigliano rivela infatti che su Airbnb «gli alloggi proposti a Milano sono soprattutto proprietà (84% vs 16%): questa attività locativa sembra quindi configurarsi, solo per una piccola quota (16%), come locazione di uno spazio all’interno, verosimilmente, della propria abitazione. Viceversa, tale attività appare come un vero e proprio progetto di investimento immobiliare gestito direttamente dal proprietario dell’immobile o tramite un agente immobiliare o altro tipo di società»

È importante rilevare anche un’altra criticità di cui si è finora parlato poco in Italia: quest’offerta sottrae immobili al mercato delle locazioni e ne gonfia le quotazioni, perché affittare a turisti stranieri per pochi giorni, può procurare molto facilmente un introito superiore – ed esentasse – rispetto ai canoni di locazione tradizionali, calmierati o a mercati di nicchia come quello degli studenti universitari. Lo sanno molto bene a San Francisco, dove è nata Airbnb che lì ha investito più di otto milioni di dollari per battere il referendum con cui a novembre 2015 le autorità locali avevano proposto l’introduzione di regole più severe per limitare la locazione degli immobili sulla piattaforma on line.

Anche un’analisi del Parlamento Europeo si è occupata del tema, affermando che le piattaforme come Airbnb hanno “disturbato” il mercato degli alloggi creando concorrenza “sleale”. Lo studio, pubblicato a novembre 2015, è disponibile in inglese: “Tourism and the sharing economy: challenges and opportunities for the EU” a cura del Directorate General for Internal Policies Policy Departement B: Structural and Cohesion Policies Transport and Tourism Research for Tran Committee e sottolinea l’assoluta necessità di regolamentare il settore.
Questa esigenza è ormai ben chiara a tutti, compresi i gestori delle piattaforme che, consci anche delle innumerevoli norme applicate dai governi locali (in Europa, non solo in Italia) vogliono superare le criticità che già si sono verificate ed evitarne di nuove, dal pagamento della tassa di soggiorno ai Comuni (Firenze ha già raggiunto un accordo, Milano lo sta facendo in questi giorni), dall’incubo dei proprietari che si ritrovano danneggiata la casa fino alla tragedia avvenuta pochi giorni fa, vicino a Parigi, dove alcuni ragazzi che avevano affittato una villa su Airbnb hanno purtroppo trovato un cadavere in giardino, perché «Chi è convinto che la cosa peggiore che può succedere sia un condizionatore mal funzionante dovrebbe cambiare idea» come racconta bene Davide Piacenza su Rivista Studio.

E se ne è accorto anche il Parlamento italiano dove un gruppo trasversale di deputati (Sergio Boccadutri e Veronica Tentori del Pd, Antonio Palmieri di FI, Ivan Catalano e Stefano Quintarelli del Gruppo Misto e Adriana Galgano di Scelta civica) ha presentato il 2 marzo scorso una proposta di legge per la “Disciplina delle piattaforme digitali per la condivisione di beni e servizi e disposizioni per la promozione dell’economia della condivisione” con l’intento di definire una cornice di regole chiare e trasparenti trasversali ai settori interessati dall’economia della condivisione, che sia di stimolo per l’innovazione dei settori tradizionali, migliori l’offerta disponibile per i consumatori e accompagni il processo innovativo del mercato.
La proposta di legge è una buona notizia soprattutto perché, come i relatori hanno sottolineato più volte in conferenza stampa, è aperta ai contributi di tutti e quindi modificabile e integrabile, grazie all’uso di una piattaforma collaborativa, davvero di facile utilizzo. Perché davvero, per quante siano le competenze a disposizione di una struttura, anche il Parlamento, sono sempre di più quelle che stanno fuori. A una prima, veloce lettura, il testo presenta molti margini di miglioramento, che ci si augura possano essere superati grazie alla collaborazione degli operatori economici interessati e dei consumatori. Adesso tocca a noi.

(Pubblicato su imille.org)

Emanuela Marchiafava

Media Analyst e consulente per le imprese, già assessore della Provincia di Pavia, si occupa di turismo, politica e diritti.