Emergenze e diritti fondamentali

Salus rei publicae suprema lex esto è una famosa massima ciceroniana (presente anche nello stemma dell’esercito italiano) ripresa dal Machiavelli nei suoi “Discorsi” per dir che quando è in gioco la salvezza dello Stato, “non vi debba cadere alcuna considerazione né di giusto né di ingiusto, né di pietoso né di crudele, né di laudabile né di igominioso; anzi, posposto ogni altro rispetto, seguire al tutto quel partito che li salvi la vita”.

La massima parrebbe valere ancora oggi posto che stiamo assistendo ad inedite torsioni del diritto e del sistema costituzionale e in molti iniziano a chiedersi, del tutto legittimamente, quali siano i limiti ed i confini ordinamentali di una situazione come quella che stiamo vivendo.

Chi ha in Italia il potere in situazioni di emergenza?
Può il Presidente del Consiglio sovvertire le fonti del diritto ed emanare al posto del Parlamento provvedimenti aventi forza di legge – i noti DPCM – che limitano pesantemente molteplici diritti garantiti dalla Costituzione?

E se sì, davvero tutti i diritti possono esser negati o compressi in emergenza o ci sono dei limiti? Fino a che punto, ad esempio, l’emergenza sanitaria potrebbe giustificare ingerenze massive nella vita privata, ad esempio tracciando ogni movimento e ogni contatto tra le persone con l’uso di tecnologie digitali come da più parti invocato?

Le risposte non sono semplici ma qualche considerazione può esser fatta, giusto per orientarsi.

La nostra Costituzione non aiuta perché non prevede e non regola lo stato di emergenza. A differenza di altre carte costituzionali, i nostri costituenti ritennero pericoloso inserire clausole d’emergenza che potessero in casi necessariamente imprevedibili – se un’emergenza fosse prevedibile non sarebbe più emergenza – sovvertire l’ordine costituzionale conferendo pieni poteri a questo o quell’organo costituzionale o legittimare limitazioni o addirittura la sospensione dei diritti dei cittadini.
Non fu una dimenticanza ma fu una scelta dibattuta in seno alla seconda sottocommissione, certamente influenzata dal disastro dell’art.48 della Costituzione di Weimar che consentì formalmente la nascita della dittatura nazista.

La cosa più vicina allo stato di emergenza era per i padri costituenti, 70 anni fa, il ricorso al decreto legge: per l’art.77 della Costituzione in casi straordinari di necessità ed urgenza e per il tempo limitato di 60 giorni, il Governo poteva appropriarsi del potere legislativo altrimenti riservato al Parlamento e dettare regole emergenziali aventi forza di legge.
La norma come noto ha perso da tempo l’originario carattere di eccezionalità ed i decreti legge sono ormai una (pessima) prassi utilizzata da tutti i Governi per far passare con corsia privilegiata leggi prive di qualsivoglia requisito di straordinarietà, necessità o urgenza.

L’attuale organizzazione del potere nell’emergenza che viviamo deriva però proprio dall’utilizzo di tale strumento costituzionale, per una volta correttamente usato in piena aderenza allo spirito straordinario originariamente previsto.

Il potere del Presidente del Consiglio, che con i ben noti DPCM (Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri) sta travolgendo le nostre vite, poggia su di un decreto legge, il D.L. n°6 del 26 febbraio 2020 , che di fatto delega allo stesso Presidente del Consiglio (di concerto con i vari ministri di volta in volta interessati), l’attuazione di una serie di misure restrittive volte a contrastare la diffusione dell’epidemia e all’art.2 delega genericamente “ogni misura di contenimento e gestione adeguata e proporzionata all’evolversi della situazione epidemiologica”.

Il Decreto Legge è stato approvato e convertito dal Parlamento il 26 febbraio ed è oggi legge ordinaria. In sede di conversione purtroppo nessuno in Parlamento si è posto il problema di quanto ampi fossero i poteri delegati al Presidente del Consiglio, quali limiti temporali avessero e fino a che punto l’emergenza potesse giustificare la compressione dei diritti fondamentali dei cittadini.

Ora, mano a mano che i provvedimenti si fanno più incisivi e che le misure dettate nell’emergenza si prolungano, la questione diviene però stringente.

Qual è il perimetro di liceità di provvedimenti emergenziali che sospendono e limitano diritti e libertà fondamentali garantiti in Costituzione quali la libertà di movimento e di riunione (art.16-17 Cost.), il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma anche associata (art.19 Cost), il diritto alla scuola (art.34 Cost) o alla libertà di impresa (art.41 Cost)?
Quali limiti incontrerebbe il ricorso a massive tecnologie in grado di interferire nella vita privata dei cittadini con trattamenti massivi di dati personali per il contenimento del virus?

Se la risposta non si trova né in Costituzione né nella legge ordinaria, può esser rinvenuta nei trattati internazionali sottoscritti dall’Italia che contengono espresse clausole di emergenza: mi riferisco alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) e al Patto per i Diritti Civili e Politici (Patto) approvato dalle Nazioni Unite nel 1966.

Entrambe le convenzioni, ratificate dall’Italia, nel vincolare gli Stati aderenti al rispetto dei diritti umani fondamentali in esse puntualmente elencati prevedono espressamente all’art. 15 CEDU e 4 del Patto una possibilità di deroga in caso di emergenza: a determinate condizioni e con chiari limiti. Le due norme sono molto simili:

CEDU
ARTICOLO 15 Deroga in caso di stato d’urgenza
1. In caso di guerra o in caso di altro pericolo pubblico che minacci la vita della nazione, ogni Alta Parte contraente può adottare delle misure in deroga agli obblighi previsti dalla presente Convenzione, nella stretta misura in cui la situazione lo richieda e a condizione che tali misure non siano in conflitto con gli altri obblighi derivanti dal diritto internazionale.
2. La disposizione precedente non autorizza alcuna deroga all’articolo 2, salvo il caso di decesso causato da legittimi atti di guerra, e agli articoli 3, 4 § 1 e 7.
3. Ogni Alta Parte contraente che eserciti tale diritto di deroga tiene informato nel modo più completo il Segretario generale del Consiglio d’Europa sulle misure prese e sui motivi che le hanno determinate. Deve ugualmente informare il Segretario generale del Consiglio d’Europa della data in cui queste misure cessano d’essere in vigore e in cui le disposizioni della Convenzione riacquistano piena applicazione

Patto dei Diritti Civili e Politici
Art. 4
1. In caso di pericolo pubblico eccezionale, che minacci l’esistenza della nazione e venga proclamato con atto ufficiale, gli Stati parti del presente Patto possono prendere misure le quali deroghino agli obblighi imposti dal presente Patto, nei limiti in cui la situazione strettamente lo esiga, e purché tali misure non siano incompatibili con gli altri obblighi imposti agli Stati medesimi dal diritto internazionale e non comportino una discriminazione fondata unicamente sulla razza, sul colore, sul sesso, sulla lingua, sulla religione o sull’origine sociale.
2. La suddetta disposizione non autorizza alcuna deroga agli articoli 6, 7, 8 (par. 1 e 2), 11, 15, 16 e 18.
3. Ogni Stato parte del presente Patto che si avvalga del diritto di deroga deve informare immediatamente, tramite il Segretario generale delle Nazioni Unite, gli altri Stati parti del presente Patto sia delle disposizioni alle quali ha derogato sia dei motivi che hanno provocato la deroga. Una nuova comunicazione deve essere fatta, per lo stesso tramite, alla data in cui la deroga medesima viene fatta cessare.

Dalle due norme possono trarsi alcune considerazioni importanti:

1) la temporaneità delle misure è elemento essenziale in entrambe le convenzioni unitamente al principio di stretta necessità e proporzionalità. L’art. 4 del Patto richiede poi l’ulteriore importante limite che le misure non comportino una discriminazione “fondata unicamente sulla razza, sul colore, sul sesso, sulla lingua, sulla religione o sull’origine sociale”. Per esempio non sarebbe ammissibile isolare tipo i cinesi solo perché cinesi.

2) in entrambe le convenzioni vi sono alcuni diritti “incomprimibili”, che nessuna emergenza potrà limitare. Le eccezioni all’eccezione sono un po’ diverse nelle due convenzioni.
Per l’art.15 CEDU vi sono solo quattro diritti: diritto alla vita (art.2), divieto di tortura (art.3), divieto di riduzione in schiavitù (art.4 par. 1) ed il principio nullum crimen sine lege (art.7). A questi diritti si aggiungono quelli contemplati da due Protocolli allegati successivamente, e precisamente il principio del ne bis in idem (art.4 del Protocollo n. 7) per cui nessuno neanche in emergenza può esser punito due volte per lo stesso fatto e quello relativo all’abolizione della pena di morte (Protocollo 621). L’elenco dei diritti di cui è vietata ogni deroga per la CEDU si conclude qui.
Più lungo è l’elenco dei diritti inderogabili offerto dall’art.4 par. 2 del Patto.
Oltre a quelli contemplati anche dalla CEDU, vi sono il diritto dell’individuo al riconoscimento della sua personalità giuridica (art.16 Patto), il divieto di imprigionamento per motivi contrattuali (art.11 Patto) e il diritto alla libertà di pensiero, di coscienza, di religione (artt.18 Patto).

3) in entrambe le convenzioni è prevista una procedura di notifica della compressione dei diritti dovuta all’eccezionalità e soprattutto una verifica della cessazione della stessa che garantisca la fine della deroga e la piena ri-espansione dei diritti.

Alla luce di questi obblighi che vincolano tutti gli Stati aderenti, Italia compresa (per la verità la Francia espresse riserva di ratifica proprio sull’art.15 della CEDU per la prevalenza della clausola di emergenza prevista nella loro Costituzione), forse qualche risposta alle varie domande può esser data.

La limitazione dei diritti che tutti noi stiamo subendo è ad oggi giustificata dalla situazione di emergenza e non attinge alcuno dei diritti incomprimibili previsti dalle convenzioni internazionali.

Manca un termine nelle singole misure restrittive adottate, che potrebbe forse ricavarsi dalla dichiarazione di emergenza sanitaria deliberata ai sensi del Codice della Protezione Civile il 31 gennaio 2020 dal Consiglio dei Ministri che prevede 6 mesi da tale data per la gestione dell’emergenza. E’ però uno dei punti delicati e carenti nella legge delega del Parlamento che contrasta con gli obblighi internazionali.

Quanto alla complessa problematica di possibili ulteriori interventi volti a monitorare e tracciare la popolazione tramite tecnologie digitali di cui molto si dibatte mi limiterei a due considerazioni, giusto per bilanciare le legittime preoccupazioni di chi ben comprende i rischi di una sorveglianza di massa legata alle tracce digitali della nostra vita e chi altrettanto legittimamente si chiede per quale ragione la trasparenza ai limiti dello stolkeraggio che già subiamo ordinariamente per finalità di marketing non dovrebbe esser utilizzata per salvarci la vita.

L’utilizzo di metadati telefonici e di geolocalizzazione legati ai nostri smartphone (e ai nostri oggetti connessi), già presenti in molteplici banche dati di operatori di telefonia e di servizi internet va ad impattare su due diritti fondamentali previsti non dalla nostra datata Costituzione (ancora una volta poco utile) ma in diversi trattati internazionali: il diritto al rispetto della vita privata e familiare (art.8 CEDU, 17 Patto e 7 Carta dei Diritti Fondamentali UE) ed il diritto alla protezione dei dati personali previsto solo dalla art.8 della Carta dei Diritti Fondamentali UE.

Nessuno di questi diritti è incomprimibile secondo le clausole d’emergenza e può dunque esser limitato in situazioni di emergenza. La cosa ha un senso: se posso comprimere e sospendere la libertà di movimento fisico per la sicurezza e la salute della collettività sarebbe assurdo impedire l’utilizzo di dati personali per monitorare e tracciare quel movimento in situazioni di pericolo immediato e concreto. Lo stesso GDPR prevede la liceità del trattamento quando si tratta si salvare vite umane.

Il problema vero è che il mondo digitale e l’infosfera che contiene i nostri corpi digitali ha dinamiche complesse e difficilmente gestibili: troppi attori, troppe fonti “sporche” ed imprecise, una costante duplicazione delle informazioni con una persistenza dei dati difficilmente controllabile ed in ultimo una fisiologica fragilità dei software e della rete rendono ogni intervento sui diritti digitali assai più rischioso di quanto avvenga nel mondo fisico.

Nei paesi autoritari, là dove i governi già hanno pieno accesso alle vite digitali dei loro cittadini, un intervento di contact tracing è più facile: è come costruire una autostrada in una noiosa pianura piuttosto che una strada tra le splendide montagne costituite dai diritti fondamentali dei paesi democratici.

Non è che non si può fare nell’emergenza, è che bisogna farlo diversamente, con più cautele.

Bisogna, per addentrarsi nella selva dei nostri dati, avere competenze tecnologiche e grande cultura giuridica: non basta l’una e non basta l’altra.
Come giurista direi che si può fare; come conoscitore delle dinamiche della rete direi che è molto rischioso; come tecnico informatico direi che non ho la più pallida idea di come si potrebbe fare senza rischiare errori clamorosi oggi e disastri irreparabili domani.
Per un’idea della complessità rimando al pezzo di Bruno Saetta su ValigiaBlu che condivido quanto alle preoccupazioni finali.

Molto si può fare con la tecnologia ma occorre vigilare, e su questo punto un’ultima annotazione mi pare opportuna.

La nostra costituzione segna il tempo e dopo 70 anni di onesto lavoro mostra tutti i suoi limiti. Mi pare però che dalla stessa possa trarsi un concetto importante in questo tempo difficile: per i padri costituenti era il Parlamento l’organo centrale di garanzia che deve sempre sovrintendere la vita della Repubblica, anche nell’emergenza.
Come osservato correttamente da Carlo Melzi D’Eril e Giulio Vigevani è lì che devono trovare composizione le inedite istanze di tutela di questi giorni complicati.

Sebbene sia comprensibile la preoccupazione dei parlamentari sul rischio contagio in aula, credo che l’ultima cosa da fare in questo momento sia “chiudere” o anche solo limitare il Parlamento per ragioni sanitarie. Sarebbe come chiudere gli ospedali in un momento in cui c’è un rischio per la “salus rei pubblicae”.
Si mettano le tute da astronauta, votino elettronicamente, facciano ciò che vogliono, ma come i medici in ospedale, vigilino e difendano lo stato di diritto e la salute della nostra democrazia. In questo momento e nell’incerto futuro che ci attende è fondamentale. In Parlamento.

Carlo Blengino

Avvocato penalista, affronta nelle aule giudiziarie il diritto delle nuove tecnologie, le questioni di copyright e di data protection. È fellow del NEXA Center for Internet & Society del Politecnico di Torino. @CBlengio su Twitter