L’irretroattività della moralità

C’è un pensiero che mi tormenta da quando è iniziato il dibattito sulla Legge Severino, sulla natura giuridica dell’incandidabilità, originaria o sopravvenuta, come sanzione amministrativa, pena accessoria o altro, e sul conseguente divieto di irretroattività che la renderebbe inapplicabile al caso Berlusconi. E non è la solita tesi del bidello che per esser assunto dev’esser incensurato a differenza di senatori e deputati. Lì so bene qual è l’argomento avverso: i parlamentari “sono” lo Stato e trovano provvidenziale lavacro dalle loro possibili colpe nella intangibile legittimazione popolare e democratica. L’argomento a me convince poco, ma non è lì il punto. Il pensiero che mi affanna riguarda proprio la supposta irretroattività della norma intesa come “sanzione”. Una sorta di irretroattività del requisito della moralità. Che parrebbe valere solo per Berlusconi.

Parto da lontano. Nel 2006, a luglio, è entrato in vigore il D.Lvo 163/2006: il mitico Codice Appalti. Al solo nominarlo gli imprenditori onesti che hanno la sventura di lavorare con la Pubblica Amministrazione alzano gli occhi al cielo. Nato con ottime intenzioni, frutto invero di alcune direttive europee, il Codice avrebbe dovuto rendere sane, trasparenti e concorrenziali le contrattazioni tra lo Stato ed i suoi fornitori ma, come spesso accade, i 273 articoli e 38 allegati (modificati 545 volte in sette anni) si sono trasformati in una formidabile macchina di tortura burocratica per le imprese, capace di generare quintali di carta tra autocertificazioni, attestati e documenti vari. Con che risultati, non mi esprimo.

Nel mio lavoro di penalista incontro quella mostruosa normativa quasi esclusivamente quando gli imprenditori mi chiedono parere sulle complesse autocertificazioni in tema di “moralità professionale”. Se fai impresa in Italia, con la legislazione che abbiamo e il pan-penalismo delirante che la caratterizza, il rischio di violare una qualche norma e beccarsi una condanna è prossimo alla certezza. Per l’art. 38 del Codice Appalti:

«Sono esclusi dalla partecipazione alle procedure di  affidamento delle concessioni e degli appalti di lavori, forniture e servizi, né possono essere affidatari di subappalti, e non  possono  stipulare  i relativi contratti i soggetti che» 

e segue una sequela di capoversi (sino alla lettera m-quater, che ogni volta mi chiedo se le lettere n,o, p avessero un problema personale nell’aprile 2006 per non esser utilizzate) che tratteggiano, al contrario, l’imprenditore moralmente accettabile per lo Stato; quello con cui è possibile trattare senza rischiare di trovarsi in casa mafiosi, delinquenti, evasori fiscali, o in generale dei condannati. E basta poco per esser esclusi: la norma chiede agli imprenditori (e agli amministratori, ai direttori tecnici e ai soci di maggioranza) di dichiarare tutte le disavventure giudiziarie pregresse. Bisogna dichiarare anche i patteggiamenti (che teoricamente non accertano giudizialmente un fatto di reato) e fin anche i Decreti Penali di Condanna, che sono quelle sentenzine emesse senza processo, che non vengono segnate sul casellario giudiziario e prevedono la sola pena pecuniaria, per fatti ovviamente in sé bagatellari. E questo senza limiti temporali. Il curriculum giudiziario di una vita è la fonte della “moralità professionale” dell’imprenditore. E non è scelta irrazionale: salve alcune storture di sistema che sarebbe lungo elencare, la “moralità professionale” è parte della storia dell’imprenditore e lo Stato non può che basarsi sui suoi atti, le condanne pregresse, come fonte oggettiva che cristallizza fatti pregiudizievoli per la comunità, commessi dell’imprenditore e più o meno correttamente già sanzionati. Al di là di un lieve sentore di ipocrisia, è difficile obiettare: l’art. 38 del Codice Appalti contiene semplicemente i requisiti amministrativamente necessari per accedere alle gare pubbliche, e tra questi, l’assenza di condanne a riprova della “moralità professionale”. La norma evidentemente non ha alcun fine punitivo o sanzionatorio per gli imprenditori disonesti, ma tende unicamente a tutelare e preservare lo Stato da cattive frequentazioni, per rendere trasparenti e non sospette le clientele.

A nessuno è mai passato per la mente che quella norma avesse fini sanzionatori e che ci si dovesse porre un problema di retroattività sui requisiti morali richiesti agli imprenditori. Nessun giurista, credo, si è mai sognato di suggerire ad un imprenditore di escludere dal novero delle condanne da dichiarare quelle emesse per fatti precedenti al 2006, in applicazione dell’irretroattività delle sanzioni penali. La “moralità professionale” dell’imprenditore è dalla legge individuata nell’assenza di condanne: in presenza di tali atti giudiziari, manca un requisito richiesto come condizione necessaria per accedere alla procedura d’appalto. Punto. Non c’è alcuna pena e nessuna possibilità di applicare un principio costituzionale quale il divieto di irretroattività, che svuoterebbe di senso le finalità stesse della legge.

La sanzione, intesa come punizione all’art 25 della Costituzione, sia essa penale o anche amministrativa, accede ai fatti, alle condotte colpevoli del reo; i requisiti amministrativi di moralità sono legati agli atti giudiziari, alle sentenze definitive. Non si può confondere il fatto di reato, questo sì sanzionato, con la condanna, da cui possono derivare effetti pregiudizievoli che non sono però tecnicamente sanzioni.

Le stesse argomentazioni mi pare valgano per gli articoli 1 e 3 della Legge Severino. Nel merito si può esser più o meno favorevoli all’introduzione di requisiti amministrativi di moralità per le cariche elettive (elettive per modo di dire), ma sulla natura di quei vincoli non è consentito giocare, pena l’intollerabile lacerazione del diritto, e l’ulteriore schiaffo al cittadino-suddito, a cui si applica, per l’ennesima volta, un diverso metro.

Sostenere che l’incandidabilità per difetto dei requisiti morali sia una sanzione mi pare un’aberrazione logica, prima che una pericolosa stupidaggine in diritto. Sarebbe come dire che richiedere la laurea per ottenere l’autorizzazione all’attività di fisioterapista costituisce norma sanzionatoria  per quelli che la laurea non ce l’hanno.

Se si statuisce il principio di irretrattività dei requisiti amministrativi di moralità, il mafioso condannato per associazione e riciclaggio nel 2010 per fatti del 2005 potrà ottener l’appalto per la riscossione dei tributi ed il condannato per frode fiscale per fatti commessi fino al 2012 potrà sedere in Parlamento per tutta la vita. Facciamo che abrogarla la Legge Severino, che sarebbe più dignitoso.

Scoprire adesso che per Berlusconi la moralità è irretroattiva mi turba. Per alcuni giuristi (pochini per la verità) lo dice la Costituzione. All’art.25 comma 2. Aspetto con terrore che il principio sia statuito dal Parlamento, che poi qualche mio cliente imprenditore, escluso dagli appalti per una vecchia condanna, forse avrà qualcosa da rinfacciarmi. È per questo che sono tormentato dal voto sulla decadenza di Berlusconi. Mica per altro.

Carlo Blengino

Avvocato penalista, affronta nelle aule giudiziarie il diritto delle nuove tecnologie, le questioni di copyright e di data protection. È fellow del NEXA Center for Internet & Society del Politecnico di Torino. @CBlengio su Twitter