Non ha senso schierarsi sui pesticidi

Capita spesso: gli amici sanno che da 31 anni lavoro come ispettore al Mipaf e allora uno mi chiama e chiede: questo prodotto che ho comprato è libero da pesticidi? Poi sempre lo stesso amico: ho i gerani pieni di vermi, mi consigli un prodotto per sterminarli tutti? Non bado a spese, va bene anche il napalm. Dunque, quando siamo consumatori vogliamo un prodotto buono e pulito ma quando siamo produttori vogliamo proteggere la pianta per garantire un buon prodotto. Sembra una contraddizione insanabile e invece c’è modo per garantire sia la difesa e la salute delle piante sia il prodotto finale e la salute del consumatore. Il tema su cui si cerca di lavorare (accogliendo quanti più contributi è possibile): è One Health. Piante, ambiente, uomo, animali sono parte integranti di uno stesso sistema, proteggere una parte aiuta a proteggere il contesto. Ho fatto quattro chiacchiere con Francesco Pennacchio, detto Franco.

Ciao Franco, presentati
Franco Pennacchio, 59 anni, professore ordinario di Entomologia presso il Dipartimento di Agraria dell’Università di Napoli Federico II. In questo stesso luogo ho svolto un dottorato di ricerca in Entomologia prima di trasferirmi negli USA nel 1989, dove ho continuato la mia attività di ricerca per circa due anni. Al rientro in Italia ho avuto la possibilità di proseguire i miei studi svolgendo una carriera accademica che nel 2005 mi ha riportato al punto di partenza: la Reggia di Portici.

La gloriosa Reggia di Portici, ex residenza borbonica…
E sede di una delle prime Facoltà di Agraria in Italia, con una tradizione unica nel campo dell’Entomologia, dove svolgo ancora oggi le mie ricerche, ricoprendo la carica di Presidente dell’Accademia Nazionale Italiana di Entomologia e della Società Entomologica Italiana.

Franco veniamo subito al punto, rispetto a 30-40 anni fa, l’entomologia è cambiata? Te lo chiedo perché nella percezione pubblica (e i media generalisti insistono su questo punto) sembra che esistano solo due tipi di agricoltura, una cattiva (dove ci sono gli insetti e i pesticidi) e una buona (dove non ci sono né insetti né pesticidi). Vorrei capire se in questi anni siete riusciti a trovare una sintesi tra le due posizioni.

La scienza e le tecnologie hanno fatto passi da giganti e chiaramente anche l’entomologia ha fatto altrettanto. Quello che non è cambiato, o forse sta cambiando solo lentamente, è il modo di affrontare come sistema sociale problemi delicati, che hanno implicazioni rilevanti sull’ambiente e sulla salute pubblica.

Vai spiega
Spesso si assiste alla contrapposizione di visioni settoriali fortemente orientate da interessi di parte, di natura economica o ideologica, che generano nel cittadino confusione, chiamandolo a scelte di campo basate più sulla pancia che sulla testa. È assolutamente fuorviante focalizzare l’attenzione su pesticidi sì o pesticidi no, o qualsiasi altro dilemma di natura dicotomica, il problema è come si usa qualsiasi strumento di difesa delle piante, con quali obiettivi e vincoli.

Partiamo dai principi elementari. Perché uccidiamo gli insetti? E quali problemi ci sono?
Controllare le popolazioni naturali di insetti dannosi alle piante ha lo scopo primario di proteggere la produzione di alimenti, ma con il vincolo di rispettare quanto più possibile l’ambiente e tutte le forme di vita in esso presenti (sostenibilità ecologica), generando un reddito utile per l’imprenditore (sostenibilità economica). Tutte le combinazioni di strumenti di controllo che garantiscono lo sviluppo di strategie che rispettano questi vincoli sono quelle giuste e inevitabilmente cambiano con il tempo e l’avanzare delle conoscenze.

La definizione, se non sbaglio, è controllo integrato…
Sì, ciò corrisponde al concetto di controllo integrato, formulato con chiarezza alla fine degli 50 dello scorso secolo, quando fu proposto per la prima volta negli USA, l’Integrated Pest Management (IPM). Niente di nuovo sotto al sole.

Perché?
Perché questa è la visione del buonsenso, che non cambia col tempo, i cui principi ispiratori sono validi e saranno sempre validi. Questa visione è quella promossa anche dalla direttiva europea del 2009 sull’uso sostenibile dei pesticidi. Ma evidentemente buona ricerca e norme adeguate non bastano a generare chiarezza, viste le discussioni poco edificanti e confuse a cui spesso si assiste. Queste discussioni sono indicative della vera natura del problema: la mancanza di una rigorosa divulgazione scientifica a favore del cittadino, spesso lasciato in preda a disorientati dibattiti animati da contrapposizioni inconciliabili e posizioni scientificamente discutibili.

Dedichiamo poca attenzione alla divulgazione…
Sì, è indispensabile definire un’efficace attività di divulgazione scientifica per fare in modo che le strategie di controllo degli organismi dannosi, oltre ad essere sempre più ecologicamente ed economicamente sostenibili, siano anche accettabili da un punto di vista etico da una popolazione consapevole e correttamente informata.

Senti Franco, ne approfitto, fammi meglio comprendere in cosa consistono le pratiche sostenibili di controllo. Immaginiamo delle coltivazioni di melo o di uve da vino, monocolture che vengono mantenute per decine di anni e che naturalmente sono danneggiate da parassiti e patogeni a esse associate. Rispetto a 40 anni fa, come si svolge la lotta? Voglio dire, è migliorata? È più efficace, meno invasiva, più sostenibile?
Non c’è dubbio che i progressi fatti negli ultimi 40 anni sono enormi, si è passati da piani di lotta ampiamente basati sull’uso del mezzo chimico a strategie d’intervento più mirate e sostenibili, che utilizzano in modo crescente mezzi biologici (antagonisti naturali), biotecnici, piante resistenti o tolleranti e, negli ultimi decenni, anche alle biotecnologie. In ogni caso, lo scopo è quello di essere quanto più selettivi possibile: colpire l’organismo dannoso, limitando al minimo, se non evitando completamente, i danni su tutti gli altri organismi non-bersaglio e sull’ambiente. Questo è un principio generale che mira a preservare quanto più è possibile la biodiversità e la maggiore stabilità degli agroecosistemi che da essa deriva.

C’è anche l’informatica che dà una mano, vero? I dati raccolti in campo possono essere integrati con i piani di lotta.
Sì, vanno considerati gli enormi passi in avanti fatti nelle tecnologie digitali e ingegneristiche che, assieme al dilagante sviluppo dell’intelligenza artificiale, stanno spalancando le porte all’agricoltura di precisione e all’uso di modelli sempre più affidabili, che consentono attività di previsione, prevenzione, monitoraggio e intervento incredibilmente fini.

Ok, ma torniamo al punto, perché è una domanda che si fanno in tanti: ma i pesticidi (agrofarmaci)?
I pesticidi, come tutte gli strumenti di difesa ad elevato contenuto tecnologico, sono andati incontro a una continua evoluzione, che ha consentito lo sviluppo di molecole sempre più specifiche ed efficaci, le cui dosi di utilizzo si sono sempre più ridotte. Nell’ultimo trentennio abbiamo assistito a una profonda metamorfosi del mercato degli agrofarmaci, accompagnata da un continuo miglioramento della gestione del rischio e della sicurezza, grazie a una normativa in materia sempre più stringente, sia a livello nazionale che europeo. Ciononostante, i quantitativi assoluti di pesticidi utilizzati nel mondo sono ancora elevati e deve essere una priorità ridurli. Questo è lo sforzo maggiore che siamo chiamati a compiere per contenere sempre di più l’impatto ambientale dell’agricoltura, che, però, non potrà mai essere nullo.

Ok, less is more, diciamo noi scrittori
Oggi ci sono gli strumenti e le conoscenze per poter raggiungere questo obiettivo, la strada intrapresa è quella giusta e deve essere battuta con crescente impegno, promuovendo la formazione degli imprenditori, a cui va offerta adeguata assistenza tecnico-scientifica, e l’educazione dei cittadini. Un numero crescente di esperienze ci dimostrano che questo è un percorso virtuoso possibile.

Mi fai un esempio concreto, giusto per comprendere meglio
Mi piace ricordare quanto fatto in un ampio e famoso distretto viti-vinicolo della Toscana, dove, attraverso una stretta collaborazione fra ricerca e imprenditori, si è arrivati a una gestione fitosanitaria esemplare

Credo una cosa non sia chiara nei discorsi generalisti sull’agricoltura: il cibo serve anche a noi. Cioè, la mela così come la vediamo oggi è stata prodotta da noi, in millenni e millenni di selezione inconscia prima e consapevole poi. Il melo all’inizio produceva frutti per gli orsi, poi ci siamo fatti avanti noi e la mela è cambiata

È la cosa che non bisogna mai dimenticare: la produzione di cibo è un’esigenza umana non degli ecosistemi naturali, che tendono spontaneamente a trovare equilibri in cui la biodiversità fiorisce, generando stabilità e resilienza compatibili con l’utilizzazione ottimale delle risorse disponibili, non con la prevalenza di una specie, quella che deve produrre. Negli agroecosistemi, per definizione artificiali, questi equilibri vanno quanto più possibile preservati e valorizzati perché estremamente importanti, ma l’intervento dell’uomo sarà sempre necessario, possibilmente con un ricorso minimo al mezzo chimico che deve rappresentare sempre l’ultima opzione, come previsto anche dalla direttiva europea sull’uso sostenibile dei pesticidi.

Tu pensi che la ricerca e la tecnologia saranno in grado di ridurre il peso antropico?
Sì. Solo la conoscenza scientifica rigorosa e la sua corretta diffusione e utilizzazione possono far sì che la pressione antropica sulla natura per la produzione di cibo sia ridotta al minimo. Ogni altra posizione che non tenga conto di questo può generare solo pericolose derive utopistiche di cui non abbiamo assolutamente bisogno.

Senti Franco, a metà degli anni 60 del secolo scorso ha preso forza il movimento organico. Erano anni in cui la chimica era opprimente, dettava legge nei campi e i primi agricoltori organici sembravano dei carbonari. Forse dobbiamo anche a loro un’analisi più seria dei costi per la società e l’ambiente di alcuni strumenti di lotta. Credo che ci siano due modi di vedere la cosa, il primo è riconoscere che grazie a un’idea nuova di agricoltura, le pratiche agricole sono cambiate; il secondo è riconoscere che gli strumenti che l’agricoltura organica ci propone non sono sempre efficienti, visto che gli agrofarmaci vengono utilizzati anche nell’agricoltura biologica. Inoltre, da parte dei coltivatori organici c’è un’opposizione verso le biotecnologie che faccio fatica a capire, insomma se riusciamo a dotare una pianta di resistenza facciamo a meno di alcune molecole chimiche. Credo però sia importante integrare le conoscenze, non più bio vs convenzionale ma integrazione tra bio e convenzionale. Ecco la mia domanda, ci sono strumenti (scientifici, testati, efficaci) che possono servire da ponte e migliorare entrambi gli approcci?
Se sì, quali sono?

Situazioni estreme vanno affrontate con posizioni estreme e forti. La nascita di un fronte biologico, di reazione drastica al principio dell’uso indiscriminato dei pesticidi come soluzione unica a tutti i problemi di difesa fitosanitaria, è stata un gran bene, una reazione sana, partita da componenti sociali e culturali vive che avevano intuito subito la pericolosità di un tale convincimento, promosso con una visione puramente commerciale dall’industria agrochimica e abbracciato acriticamente da molti.

Sì insomma, per un certo periodo, vigeva il principio: se un chilo di agrofarmaco funziona mettiamocene due.
Non necessariamente. Ma certamente l’idea di eradicare ogni forma di vita dannosa alle piante con l’uso massiccio del mezzo chimico era prevalente, dal dopoguerra in poi è stato un modo di pensare molto diffuso, che ha generato un sano fronte di reazione. Tale reazione si è consolidata e trasformata negli anni, dando vita sempre più a una visione bio dell’agricoltura, che ha generato nicchie di mercato molto interessanti, popolate da una fascia di consumatori medio-alta, sia per reddito che per cultura. Nulla contro questa visione. Anzi, è giusto che ognuno sia libero di pensare e vivere come meglio ritiene ed è giusto che ci siano degli imprenditori in grado di fornire un’offerta adeguata e corretta a questo tipo di domanda, che non è solo di beni di consumo, ma anche di una forma diversa di consumo.

Va bene, sul piano dell’efficacia degli strumenti? Voglio dire, non sempre basta la parola bio per risolvere i problemi
L’agricoltura organica o biologica è certamente una pratica a ridotto impatto ambientale, nonostante necessiti comunque di interventi dell’uomo, per le ragioni già spiegate sopra. Non se ne può fare a meno. I prodotti chimici utilizzati presentano mediamente una maggiore sostenibilità ambientale, anche se alcuni di essi possono avere un impatto negativo non trascurabile (ad esempio il rame) o talora non risolvono i problemi con la dovuta efficacia. Ma non è questo il punto.

Spiega cosa intendi…
La visione è molto più complessa quando parliamo di sicurezza alimentare e sostenibilità economica dell’accesso al cibo per tutti, che richiedono strategie completamente diverse e l’approccio bio, nella sua accezione più stretta, non consente di raggiungere questi importanti obiettivi. Tuttavia, l’agricoltura biologica è un’interessante realtà tecnico-economica che va preservata, ma non bisogna considerarla la soluzione di tutti i problemi in tutti i contesti. Inoltre, non bisognerebbe farla diventare un contenitore ideologico dove trovano spazio ingiustificato posizioni difficili da comprendere, come, ad esempio, il rifiuto preconcetto delle biotecnologie, non supportato da alcuna argomentazione scientifica.

In effetti è una posizione che faccio fatica a capire: posso comprendere l’antipatia verso le multinazionali, ma credo che la ricerca pubblica possa sviluppare al meglio le biotecnologie
Le biotecnologie sono uno strumento estremamente versatile, con molteplici applicazioni e che consente, quindi, di fare molte cose. Sono queste, le cose che si fanno, che possono essere buone o cattive, da valutare sempre con molta attenzione, caso per caso. Ad esempio, le biotecnologie possono essere utilizzate come strumento che consente la distribuzione nell’ambiente di una molecola naturale in grado di combattere gli organismi dannosi. Eventuali problemi associati a questo tipo di applicazione sarebbero da ricondurre all’effetto della molecola sull’ambiente e sugli organismi non-bersaglio che, ovviamente, non dipende dalle sue modalità di distribuzione. Ignorare questo concetto è come sostenere, con una piccola forzatura, che i problemi associati ai pesticidi chimici di sintesi siano tutti, paradossalmente, dovuti alle macchine irroratrici.

Mi puoi fare un esempio?
In agricoltura, non solo biologica, l’uso del Bacillus thuringiensis (Bt) è, giustamente, diffuso, ma piante transgeniche che esprimono la stessa tossina insetticida prodotta da questo batterio non possono essere utilizzate, nonostante questa specifica tecnologia venga impiegata da più in un ventennio in tutto il mondo e non siano mai stati riportati casi di effetti deleteri significativi sull’ambiente e sugli organismi non-bersaglio.

Emerge quindi ancora una volta che è fondamentale non avere preclusioni e preconcetti…
Questo semplice esempio, volutamente banalizzato, mette in luce quanto su queste posizioni pesino aspetti più ideologici che scientifici. Il problema delle biotecnologie è molto più ampio e non è riconducibile, come già sottolineato per i pesticidi, a una logica dicotomica “biotecnologie sì o biotecnologie no”. Esse non sono sempre utili o dannose. Come tutti gli altri strumenti di controllo, le specifiche applicazioni biotecnologiche devono essere assoggettate a una rigorosa analisi del rischio e, soprattutto, a un’analisi comparata del rischio. L’alternativa all’uso di una biotecnologia spesso non è il nulla, ma altro, incluso il mezzo chimico che, però, come ogni altra strategia, non è a impatto zero, e non va considerata necessariamente migliore sulla base di una visione preconcetta delle biotecnologie.

Insomma, è importante sfruttare al meglio i differenti mezzi di controllo di cui oggi disponiamo…
Sì, queste riflessioni ci fanno capire ancora meglio il valore importante del controllo integrato. Non esistono proiettili magici che funzionano sempre e dovunque, ma ogni problema nel suo contesto ha delle soluzioni che prevedono l’integrazione di tutti i mezzi possibili a disposizione, rispettando i vincoli di sostenibilità ecologica ed economica, cosa semplice da comprendere concettualmente ma non banale da realizzare.

E abbiamo la possibilità di integrare e controllare?
La disponibilità oggi di modelli complessi, in grado di valutare l’impatto di misure d’intervento su specifiche realtà territoriali, tecniche e sociali, rende tale sforzo sempre meno empirico e molto più efficace.

Vuoi concludere con un appello, un buon proposito?
Dobbiamo guadagnare la fiducia del cittadino e definire un percorso di corretta crescita sociale, in cui non ci sia spazio per inutili conflitti di parte. Il ruolo delle accademie e delle società scientifiche, assieme agli enti pubblici di ricerca e formazione, è centrale in questa importante missione educativa che è alla base di uno sviluppo armonico.

Antonio Pascale

Antonio Pascale fa il giornalista e lo scrittore, vive a Roma. Scrive per il teatro e la radio. Collabora con il Mattino, lo Straniero e Limes. I suoi libri su IBS.