Siamo il problema o la soluzione?

Qualche giorno fa, previa autorizzazione, sono andato al lavoro (Mipaaf) per consultare documenti cartacei. Nonostante varie imprecazioni contro epidemiologi, politici e forze dell’ordine, conferenze stampa e affini, sono stato molto ligio al dovere e in 20 giorni non sono mai uscito, se non (in rigorosa) solitudine, e ovvio, per conclamate esigenze domestiche, cioè, in sintesi, buttare la spazzatura.

Sono andato a piedi perché sono da sempre eco-friendly (da casa mia in ufficio, solo 6 km, quello che si dice una salutare passeggiata di un’ora e 10 minuti) e pur immaginando la città deserta, mi sono trovato ad attraversare spazi infiniti e sovrumana quiete, voglio dire Roma non s’era mai vista così, nemmeno nella celebre nevicata del ’56 del poeta Califano.

Non c’era nessuno. Sì, qualche barbone e avventore e militari nei posti di blocco, quando, anni addietro, visitai il deserto di Marrakech vidi più turisti e carovane.
Così, vuoi il cammino spirituale verso l’ufficio, vuoi il panorama spoglio, mi sono posto una domanda sulla condizione umana, cioè, ho avuto un rigurgito di esistenzialismo di nuovo conio.

Insomma a causa della crisi COVID-19, mi sono chiesto: stavo vivendo il sogno dell’ecologista o l’incubo causato dall’ecologista?
Che tradotto significa: ma noi uomini siamo il problema o la soluzione? Se andiamo via tutti o una gran parte di noi, se la nostra impronta ecologica cala, il pianeta starà meglio o peggio?

Se durante il viaggio di andata avevo optato per il sogno (aria cristallina, cielo terso e tutta mia la città), sulla strada del ritorno ho cominciato a provare un forte senso di fastidio verso il suddetto silenzio e gli spazi vuoti e la profondissima quiete. Ho quasi cercato di avvicinarmi ai gas di scarico di un autobus romanaccio, con quei getti di smog che sembravano venissero dai geyser infernali, e sì, ho respirato la complicata miscela senza paura, anzi mi sembrava inebriante, mi restituiva sensibilità ai muscoli, tornavo umano.

Premessa: le seguenti impressioni vengono fuori dalle montagne russe emotive. Sono vittima di una serie di stressanti dichiarazioni contraddittorie. Da “fatemi uscire cazzo”, a #iorestoacasa ad libitum. Da “ci vuole l’esercito”, a “dove sono le libertà civili”?
Per non parlare dei miei sentimenti verso i virologi. Si va da: “o capitano o mio capitano”, come ho declamato a volte, in religioso ascolto dei virologi. Oppure: “questo ci porta sul lastrico”.

Da un parte, in qualità di scrittore ho consigliato, a destra e manca, di leggere Proust e Lev Tolstoj, dall’altra parte io non leggerei mai i libri che consiglio perché voglio uscire.
Sì, da un parte sogno la normalità, la gente, la calca, il rumore della metropoli – già dopo una settimana non ne posso più di cantare Azzurro e sbattere pentole sui balconi – dall’altra parte sono diventato una specie di sceriffo mezzo fascista che rimprovera tutti quelli che escono a prendere una boccata d’aria: e non capisco perché non stanno a casa e leggere Proust e il conte Tolstoj.

Sarà per via della confusione, lo spaesamento, il senso di inutilità e l’angoscia, la depressione e la speranza, insomma vista l’altalena emotiva sono arrivato alla vexata quaestio di cui sopra che ora vi propongo: ma noi uomini siamo il problema o la soluzione?

Uno dice dai, questione sofista. Senza di noi il mondo che ora amiamo osservare, svuotato e silenzioso non esisterebbe più, e quello che verrebbe fuori nemmeno ci piacerebbe.

Va bene, questo è vero. Eppure credo che la crisi farà aumentare la curva esponenziale degli antinatalisti. Un movimento sconosciuto ai più ma del quale, scommetto, sentiremo parlare.

Sostengono che la nostra specie sia un serio problema, soprattutto per il pianeta, dunque meglio sarebbe andare via, lentamente e con grazia, smettendo di far figli.
Avete visto com’è il nostro pianeta quando tutto è chiuso? Le anatre in laguna e i lupi a valle, l’ossigeno che riprende forza e purezza. Chiunque ha visto le acque dei canali veneziani diventare cristalline e le meravigliose piazze italiane vuote – e sì, una mattina di grecale, ho fatto un giro sulle varie webcam: che splendore! Piazza San Marco con una sola persona che spaventata dalla solitudine si è rifugiata sotto i portici – chiunque ha assistito e assisterà a questa visione, si porrà la domanda esistenziale: veramente volete tornare nelle piazze affollate, nel traffico e con le PM nei polmoni?

Per fare cosa? Aumentare il tasso di nevrosi, violenza e insensatezza? Otto, nove, dieci miliardi. Città come alveari e qualcuno che durante le notti inquiete comincia a chiedersi: ma perché, perché tutto questo casino, a che scopo?
Meglio andarsene. Con la dovuta grazia.
Questo gesto sanerebbe il nostro rapporto corrotto fin da gli esordi con questo pianeta.

Il padre degli antinatalisti, anche lui sconosciuto ai più, ma anche qui, scommetto, fra un po’ ne parleremo, è il filosofo Peter Wessel Zapffe, autore de L’ultimo messia, un saggio degli anni ’30 molto interessante, nel quale l’autore sostiene che la coscienza è stato un madornale errore del cosmo. Sì, ci ha resi umani, ma anche sensibili (e troppo) al dolore, all’angoscia e all’insensatezza del tutto. Zapffe è stato anche il padre di un certo ambientalismo, insomma quelle persone che considerano l’uomo un problema e non una risorsa.

E sì, siamo un problema per due motivi, ci dice il biologo Nicholas P. Momey in La scimmia egoista. Perché l’essere umano deve estinguersi (il Saggiatore).
Il primo. Ci crediamo speciali e quindi sentiamo, in onore della presunta specialità, di poter conquistare e distruggere ogni cosa. Gli spillover – i salti di specie, direbbero gli antinatalisti – sono opera nostra. Distruggiamo foreste, costruiamo strade, alziamo dighe, seminiamo il mais sopra l’altopiano, dormiamo in alberghi esotici e un attimo dopo siamo al bar sotto casa, per raccontare le nostre avventure: per i virus siamo come Disneyland.

Secondo motivo: siamo voraci ed egoisti, in quanto umani, e cioè, il male è in noi.
Quindi vista l’assurdità della natura umana, il dolore che procuriamo al prossimo e alle altre specie, considerata, poi, la presenza della morte, la distruzione permanente (e una volta è l’Antartide e i pinguini, una volta le balene, i pesci, la barriera corallina, le dune del deserto, le farfalle e così via), meglio non far figli e spegnersi: abolire la specie umana dal cosmo significa mettere in sicurezza il cosmo stesso, e preservare questo incanto.

Non siete d’accordo scommetto? Nemmeno io. Certo, Zapffe direbbe: è normale, colpa della nostra coscienza, inventa svariati modi per non farci pensare all’orrore della nostra stessa natura.

Eppure alcuni temi non possono essere trattati con un’alzata di spalle, a parte che provengono da un tradizione nobile, almeno se facciamo la conta di tutto il pensiero espresso dai filosofi pessimisti. Non siamo d’accordo, vero. Tuttavia, argomenti siffatti sono anche uno strumento per analizzare la natura umana nel profondo, e senza tante ciance.

La nostra natura: siamo feriti, amareggiati, fragili, deboli, umani.
Se prendiamo coscienza che non siamo speciali – del resto abbiamo 20 mila geni, gli stessi del nematode, ma voi dite, va bene ma io pianto il mais sull’altopiano, il nematode no, però lo strato di ozono che ci protegge e protegge le nostre opere è spesso tre millimetri e se finisce, finisco anche io, mentre il nematode vive – ecco se arriviamo al punto e ammettiamo: sì, non siamo speciali, allora, invece di proclamare la guerra futura e dividerci, io sono meglio di te, il mio pensiero è più puro del tuo, il mio confine è più bello del tuo, etc., potremmo, dicevamo, respingere l’idea di purezza e quindi riempire le piazze, ora vuote, e abbracciarci tutti, proprio in quanto umani, cioè persone poco speciali, anzi, ferite, bisognose di cure e amore.

E però questo è un punto importante. Siamo umani e fragili e tuttavia, per questo cerchiamo dei rimedi alle nostre fragilità. Pensate alle rivoluzioni agricole, pensate al Novecento, secolo meraviglioso, diceva Robert W. Fogel, perché abbiamo sconfitto la fame e le malattie, pensate agli antibiotici, pensate ai miglioramenti alimentari ed economici che hanno sostenuto la crescita della popolazione.

Quando sono nato, nel 1966, c’erano tre miliardi e passa di persone, ora dopo 54 anni, siamo quasi otto miliardi. I due figli che ho contribuito a mettere al mondo sono il risultato dei sogni che ho sperato si realizzassero (fuga dalle privazioni alimentari e materiali e dalla inesistente mobilità sociale), sono quei sogni di emancipazione e modernità che hanno sostenuto la crescita della popolazione. Sogni che lasciano un’impronta, altro che: costruiamo piazze, le frequentiamo e con l’uso le ingolfiamo, le roviniamo e lo faremo ancora di più.

Andiamo per i 10 miliardi, e prima di decrescere andrà peggio (perché a un certo punto, dicono i demografi, succederà, le entrate, i nuovi nati, saranno poca cosa rispetto alle uscite, i morti).

Io poi (da razionale sentimentale) penso che ce la faremo: altre innovazioni, altro benessere, un mondo più pulito. Si può fare, si può migliorare. Eppure, continuo a sentire il pensiero dei pessimisti radicali che ronza nelle orecchie, e ancora di più in questi giorni svuotati: lasciate perdere quelli che vi dicono che andrà tutto bene, quelli che si lanciano in analisi economiche, quelli che contestano la globalizzazione che sperano nella decrescita, nel km zero, nel bio etc. Non vi dicono la verità. Vi parlano sempre di mezze misure. E vi continuano a far sognare, producono ottimismo e vitalità.
Quello è il problema. I nostri sogni. Hanno prodotto 10 miliardi di persone.

Un processo iniziato da tempo. Immaginate se il dottore anestesista John Snow avesse bruciato le mappe dei pozzi contaminati di colera, immaginate se Alexander Fleming non avesse rivelato al mondo che in una piastra di coltura contaminata da una muffa la crescita batterica era inibita e la penicillina non fosse mai stata scoperta? Quante persone in meno, quante piazze vuote in più?

Dai, ci dicono quei pessimisti, siate radicali. È l’unico modo per mettere in sicurezza il cosmo. Perché se ce ne andiamo il creato sarà salvo, se restiamo ci sforzeremo di vivere, scoveremo rimedi e vivremo e danneggeremo tutto.
Il problema va affrontato nella sua interezza, ogni compromesso genera vita.

Che facciamo ce ne andiamo o sogniamo?
Se restiamo e sogniamo (e io sarei di questa scuola) allora dobbiamo essere chiari: la purezza non ci contempla, è il nemico da sconfiggere. Un mondo puro e perfetto è un mondo non accogliente.
L’impurità, invece, crea scorie e problemi e tanta vita. Basta saperlo. Più di questo non si può fare, più di tanto non si può manutenere.
Questo ho pensato, ma sono ormai al 20 giorno di clausura. Domani non so.

PS: poi boh, ci sono delle canzoni che a volte dicono più e con poche note, di quello che uno si sforza di dire con molte parole.

Antonio Pascale

Antonio Pascale fa il giornalista e lo scrittore, vive a Roma. Scrive per il teatro e la radio. Collabora con il Mattino, lo Straniero e Limes. I suoi libri su IBS.