L’agricoltura reale per un agricoltore reale

Da 27 anni e più svolgo il mio lavoro ispettivo al Mipaf. Mi occupo di calamità naturali in agricoltura. Spesso giro tutta l’Italia agricola – sono circa 12 milioni di ettari – e incontro un sacco di agricoltori e imprenditori. Sarà anche per quel senso di fatalismo che caratterizza il mio lavoro – il motto è: siamo sotto al cielo – ma nell’agricoltura reale il pessimismo serpeggia. Le stesse facce dei contadini esprimono disagio. Si nota il contrasto tra la bellezza, o meglio la colorata fragranza di alcuni prodotti agricoli sopraffini e la stanchezza di chi li produce. Molti imprenditori agricoli sono anziani, stanchi, mani callose, rughe, l’artrite in agguato. Possiedono poco e niente, hanno case con mobili di legno spessi, enormi, voluminosi, fuori moda. E un parco macchine polveroso e vetusto. Sì, a volte è proprio il senso di fragilità dell’intero sistema che ti colpisce: baracche e immigrati, brandine sparse. Centinaia di lavoratori sotto pagati che in un attimo, come in un’apparizione, entrano nei campi, si chinano sulle piante e così passano la giornata, e l’attimo dopo, come in un miraggio, escono dal tuo raggio visivo, si disperdono, si nascondono, e solo perché qualcuno ha fatto un fischio: arriva la Finanza per un controllo. Se esaminiamo (dati Ismea alla mano) alcuni comparti, quelli tradizionalmente associati al made in Italy possiamo intravedere potenzialità e limiti. Questi ultimi sono sempre gli stessi, ma affrontati, mai superati: a) la difficoltà a fare squadra, cioè associarci in forme cooperativa: propendiamo per l’individualismo e siamo pochi inclini all’associazionismo; b) l’età media degli agricoltori è alta, quindi poca innovazione e minore flessibilità, c) frammentazione delle imprese agricole: le imprese in massima parte non hanno una dimensione economica tale da garantire un reddito sufficiente: alcune condotte part time, e insomma, nel complesso fanno numero ma non produzione (quest’ultima viene infatti soddisfatta da poche aziende medie/grandi). Tuttavia, e non solo sui media, il nostro paese agricolo appare sorridente, in buona salute: un esteso mulino bianco, innevato dalla farina e alimentato con chiare, fresche e dolci acque. Contadini vecchio stampo, carattere forte e barba lunga (e ben curata) che accarezzano i propri prodotti o si riposano sotto una quercia illuminati dalla luce rossa e violacea del tramonto. Sembrano dire: questa è la bellezza della natura, e noi prendiamo da lei quello che ci da, non spingiamo, non deformiamo e per questo siamo così, felici, soddisfatti, sotto questa quercia, sotto questa luce. Per parlare di agricoltura reale e dei suoi problemi nonché di alcune soluzioni, abbiamo chiacchierato con Deborah Piovan, agricoltore, agronoma.

Ciao, presentati

Sono un agricoltore. Mi sono laureata in Scienze Agrarie, con tesi in Miglioramento Genetico, all’Università di Pisa e alla Scuola Sant’Anna. Da allora gestisco con la mia famiglia la nostra azienda. Coltiviamo mais, frumento, soia, noci, girasole, ecc. Da tanti anni sono anche un dirigente di Confagricoltura. Mi occupo in particolare di questioni relative all’innovazione biotecnologica in agricoltura. In pratica, sono una di quegli imprenditori che chiede con forza alla politica che ci venga concesso di accedere alle innovazioni del miglioramento genetico. Cerco anche di raccontare alle persone che si occupano di altro che cos’è l’agricoltura e soprattutto cosa non è.

Ok, quali sono, secondo te, i problemi dell’agricoltura reale?

Primo: abbiamo bisogno di una politica agricola chiara e definita per un periodo congruo, l’incertezza non giova agli investimenti. 
Secondo: alle imprese agricole italiane viene impedito l’accesso a una importante fetta di innovazione, quella legata alle biotecnologie. Mi spiego meglio. Al momento sembra che questo Paese abbia rinunciato a produrre derrate, dimenticando che sono alla base del famoso Made in Italy. Pensiamo per esempio al mais: è il mangime che sta alla base della filiera zootecnica che produce i nostri famosi prosciutti e formaggi, quelli che ci hanno resi famosi in tutto il mondo. Ebbene, fino a pochi anni fa eravamo autosufficienti per la produzione di mais; oggi importiamo quasi metà del nostro fabbisogno.

Come mai?

Il nostro prodotto non è appetito dall’industria mangimistica come quello importato, perché è meno sicuro. Infatti il mais coltivato nel sud Europa, a causa di un insetto che si chiama piralide ma anche per contingenze climatiche, è più facilmente ricco di tossine. In Spagna si difendono seminando un mais che si protegge da solo dalla piralide, con grande soddisfazione. A noi invece non è concesso, così per ottenere un prodotto sano siamo costretti a difendere il mais con insettcidi. Si produce comunque di meno e il prodotto è a rischio tossine. Ecco perché i mangimisti preferiscono affidarsi a mais di importazione, ogm o meno. 

Aspetta, mi fai capire meglio questo punto? Tu coltivi mais, bene, quali sono le operazioni colturali che devi fare, quelle che sei costretta a fare e quali potresti evitare con le biotecnologie?

Per prima cosa per garantire che al consumatore giunga un prodotto sicuro dobbiamo difendere il mais con insetticidi. Per esempio: la piralide, un lepidottero minatore, scava gallerie nella pannocchia aprendo così la strada a vari funghi. I funghi producono tossine (che possono causare vari e seri problemi) e quest’ultime passano intatte nei 4 stomaci dei bovini e finiscano nel latte. Ora, con il mais ogm (bt) alcune pratiche agronomiche rimangono uguali – per esempio devo comunque diserbare – ma perlomeno risparmio il/i trattamento/i insetticida anti piralide. Che non è poco almeno sia in termini di costi per l’agricoltore. Un trattamento anti piralide costa circa 60 euro all’ettaro. Parliamo di una superficie di circa 700.000 ettari che viene trattata con più di 80.000 litri di insetticida, per un giro d’affari per le multinazionali della chimica di circa 40 milioni di Euro. Ma c’è anche un vantaggio anche in termini ambientali. Secondo voi dove c’è maggiore biodiversità: in un campo di mais tradizionale appena trattato con l’insetticida o in uno di mais bt che ricordiamo si protegge da solo contro la piralide? Nel primo ho ucciso tutti gli insetti. Il secondo è un brulicare di vita, manca solo l’insetto dannoso per la coltura».

Oltre alla suddette difficoltà vedi altri problemi nell’agricoltura reale?

Sì, l’agricoltura italiana ha un grosso problema di comunicazione con il pubblico, che si è fatto un’idea distorta di cosa essa sia. Abbiamo l’agricoltura più sicura al mondo e contemporaneamente i consumatori più spaventati al mondo: c’è qualcosa che non va.

Perché vince l’agricoltura non reale?

Credo che sia anche colpa di noi agricoltori: siamo rimasti chiusi nelle nostre aziende a lavorare, occupandoci di garantire un prodotto ottimo, seguendo le tante norme di sicurezza ambientale e tutela del consumatore che ci sono state date. Anche i prodotti chimici a disposizione per proteggere le colture da insetti, piante infestanti e malattie fungine sono sempre di meno: i processi di autorizzazione e di revisione che si è data l’UE sono severissimi. Ecco perché dico che abbiamo l’agricoltura e il cibo più sicuri al mondo. E tuttavia abbiamo lasciato che la comunicazione venisse fatta da qualcun altro. Così i programmi televisivi si sono riempiti di immagini bucoliche e accattivanti, che raccontavano un’agricoltura che non esiste più da tanto tempo. L’agricoltura e il cibo sono argomenti che attirano, si sposano perfettamente a un dilagante salutismo malato, a una strana voglia di trovare complotti ovunque. Pertanto nell’orgia comunicativa ci si sono tuffati in molti, in cerca di visibilità. Ma se vuoi visibilità, se vuoi fidelizzare l’ascoltatore, il cliente, l’associato, devi spaventarlo. Non mi sta affatto bene che si arrivi a demonizzare i prodotti altrui per poter vendere i propri. È molto facile distruggere l’immagine di un settore, ma anche irresponsabile. E il danno fatto è evidente: quando ci siamo accorti dello scollamento tra immaginario collettivo e realtà aziendale era tardi. 

Allora cos’è l’agricoltura reale?

L’agricoltura è tecnologia, è meccanizzazione, è chimica responsabile, è professionalità. Io credo che si debba ricominciare da capo: coinvolgere la società nelle problematiche che l’agricoltura deve risolvere e responsabilizzarla nei processi decisionali. Altrimenti si finisce con l’impedire all’agricoltura italiana di produrre e ci si affida totalmente all’importazione. È una scelta lecita, ma io chiedo: sicuri di voler delegare all’estero una grossa fetta del nostro approvvigionamento alimentare? A me sembra rischioso.

E l’agricoltura sostenibile? Per la quale tu ti batti?

Ogni processo produttivo deve essere sostenibile da tre punti di vista: quello ambientale, quello sociale e quello economico. È così anche per l’agricoltura. Deve essere sostenibile per l’ambiente; deve esserlo per la società, che deve conoscere i nostri metodi produttivi ed essere messa in grado di condividerli con gli agricoltori; deve esserlo economicamente, altrimenti l’impresa crolla e con essa i posti di lavoro e la produzione di alimenti e mangimi italiani. Non può mancare nessuno di questi tre requisiti.

Tu come pensi di muoverti per promuoverla?

L’agricoltura sostenibile si ottiene con l’innovazione, la comunicazione, la condivisione. Ci troviamo in una situazione in cui la popolazione mondiale sta crescendo a gran ritmo: dobbiamo produrre di più senza aumentare la pressione sull’ambiente. Per farlo ci serve ogni strumento disponibile nella “cassetta degli attrezzi” che l’innovazione ci mette a disposizione: dalla meccanica, alla chimica, alla biologia molecolare. È proprio da quest’ultima che vengono le innovazioni più importanti: le biotecnologie applicate al miglioramento genetico ci possono dare piante che tollerino la carenza idrica, la salinità, le sommersioni. In questo modo potremo ottenere di più anche dai terreni marginali, poco fertili. Il cambiamento climatico è un fatto e noi dobbiamo lavorare per prepararci ad affrontarlo. Oppure dalle biotecnologie possiamo ricavare piante resistenti ai patogeni fungini, per esempio, così non dovremo più trattare con fungicidi per difendere il raccolto. Ci sono già degli interessanti studi su cereali. Insomma, se lasciamo che agricoltori e ricercatori lavorino insieme possiamo ridurre la chimica in agricoltura, l’utilizzo di acqua, il consumo di suolo.

Tu ha partecipato a un Ted, quindi il video c’è già.

Antonio Pascale

Antonio Pascale fa il giornalista e lo scrittore, vive a Roma. Scrive per il teatro e la radio. Collabora con il Mattino, lo Straniero e Limes. I suoi libri su IBS.