A favore del biologico, in modo nuovo

Devo confessare una cosa: sono per il bio. Per l’agricoltura biologica, dico. Ma da tempo. Dai primi esami all’università e anche dopo, quando ho cominciato a lavorare sul campo, come ispettore al ministero dell’Agricoltura. Non che la chimica sia il male. Non lo penso affatto, anzi. Se siamo riusciti a sconfiggere la fame e le carestie lo dobbiamo anche agli agrofarmaci (i pomodori piacciono a noi e anche agli insetti e ai patogeni), ai concimi di sintesi (è oggettivo, nutri la pianta, quella cresce e produce di più), al diserbo (se non combatti le malerbe quelle si prendono le risorse destinate alle nostre coltivazioni e la produzione si abbassa). Tuttavia ho notato che alcune tecniche agronomiche basate sulla chimica rendevano i tecnici e gli addetti ai lavori un po’ pigri, come dire, conservatori, magari c’erano altri rimedi utili ed efficaci che non venivano presi in considerazione: non si sperimentava. Per questo sono per il bio. Devo precisare che per tutta una serie di ragioni sarei bio 2.0, non per il vecchio bio. C’è una differenza. Sapete il marketing è infido, tende a suggestionarci, quindi se vi dicono che l’agricoltura biologica non fa uso di agrofarmaci, vi dicono una mezza verità. Magari si diffonde l’idea che quel contadino bio sui propri prodotti non usi niente. Tutta natura. Può essere, per carità. Ma è un po’ come i vaccini, un determinato virus non si diffonde nella popolazione perché altri si vaccinano e così facendo abbassano o eliminano l’inoculo. L’effetto gregge, in gergo. Così, se io combatto strenuamente con agro e fitofarmaci di sintesi insetti e patogeni, cioè se li faccio fuori tutti o quasi, poi è chiaro che quel contadino bio può fare a meno dei trattamenti. C’ho pensato io agli insetti. Quindi quel contadino bio è figlio della chimica. A volte l’effetto gregge non funziona e si verificano spiacevoli inconvenienti.

Nell’autunno del 1998 su una collina piemontese fui preso da uno scoramento infinito. Davanti a me avevo ettari ed ettari di vigneti distrutti da una malattia, la flavescenza dorata: grappoli disseccati a iosa e viti deperite, invecchiate. Colpa del fitoplasmi, microrganismi, parenti stretti dei batteri. Vengono inoculati nella linfa delle piante da alcuni insetti, la cicaline. Siccome i fitoplasmi non possono essere combattuti con specifici farmaci, l’unica maniera per salvare le viti era quella di far fuori le cicaline. Detto fatto, abbiamo a disposizioni molti e vari insetticidi, e così il ministero delle politiche agricole con specifico decreto impose la lotta alle cicaline. Tuttavia chi segue il protocollo bio usa delle sostanze di origine naturale, a base di piretro (si ottengono da alcune composite, simili alle margherite). Ebbene questi insetticidi non erano così efficaci e dunque le cicaline rischiavano di sopravvivere e di diffondere la malattia. Bisognava fare più trattamenti (più costi) ma anche così niente: non si riusciva a combatterle. Anzi si generavano resistenze. Molti agricoltori passarono, per il tempo necessario, all’agricoltura integrata, cioè usarono insetticidi di sintesi. Questo per sfatare subito l’immaginario del contadino bio che non mette niente sui propri prodotti. Se si scoprisse un modo grazie al quale non pochi ma tutti gli agricoltori del pianeta non usano niente e tirano fuori una buona produzione (per quantità e qualità), allora dovremmo dare un Nobel allo scopritore del metodo niente. Anche i coltivatori bio usano agrofarmaci. Non di sintesi, per carità. Naturali. Suggestiva la parola. Ma vogliano andare nel prosaico? L’insetticida principe è quello che deriva dal Bacillus thuringiensis. Questo batterio produce delle tossine. Le suddette sono letali per tre ordini di insetti, Lepidotteri, Coleotteri e Ditteri (alcuni ceppi anche contro Rincoti, Imenotteri e Mallofagi). Innocue per l’uomo e animali superiori.

Il motivo è presto detto, le tossine si attivano in ambiente alcalino, noi umani, come prima barriera, abbiamo lo stomaco, quindi acido cloridrico. Infine, nell’intestino non c’è il recettore della tossina, quindi non si forma il legame e il processo non si attiva. Tutto bene. Naturalmente per coltivare il batterio e produrre, poi, l’insetticida nelle opportune formulazioni commerciali (e indicare tempi di carenza e altro) c’è bisogno di un’industria chimica, piccola o grande che sia. Tanto è vero che le grandi multinazionali della chimica hanno specifici settori che si occupano della produzione commerciale di questo insetticida. Sempre nella chimica si finisce. Niente di male, ma io, come dicevo, sarei bio 2.0, appunto. Poi ci sono le piretrine, composti organici (sono degli esteri) che si ottengono coltivando, raccogliendo ed essiccando, i capolini di alcune specie del genere Chrisanthemum. Qui vi confesso che l’effetto naturale si fa sentire, come potrebbe essere altrimenti? Grandi distese di Crisantemi, coltivati per ottenere l’insetticida. Certo, qualche volta capitano inconvenienti. Non so, un fungo attacca intere coltivazioni di Crisantemi. Allora bisogna usare un fungicida non bio per difendere la produzione di insetticida bio. Capite? Sono i paradossi della natura.

Poi c’è il Rotenone (azione insetticida e acaricida). Si estrae dalle radice di una leguminosa, la Derris ellittica. Anche qui bisogna produrlo, estrarlo, e nonostante sia naturale, insomma è una leguminosa, l’effetto sull’ambiente non è così gradevole. Non è un insetticida selettivo. È fortemente tossico per pesci e moderatamente per i mammiferi. Se alla luce solare si degrada entro tre giorni, in acqua può starci fino a sei mesi. Per questo ormai il rotenone è in via di eliminazione dai protocolli di coltivazione organica. E infine, il rame. Che è bello, di un blu elettrico. Nei musei di storia naturale si trovano le pietre che contengono rame, la calcantite, sono così belle che una volta ho cercato di comprarne una su eBay, ma ho perso l’asta, avevo offerto 60 euro. Però mica prendete la pietra e la mettete nei campi e questa per azione magica combatte i funghi? E no, anche qui, bisogna produrlo, il solfato di rame. Ci vuole un’industria vera e propria. Se come me non siete chimici prendete una Garzantina e vedete com’è complessa la produzione di rame (si fa reagire l’acido solforico su trucioli di rame). Anche la calce adoperata per preparare la mitica poltiglia baldolese necessita di stabilimenti chimici, senza forni ad alta temperatura come fai a produrla? Vogliamo parlare dello zolfo? Che vogliamo mandare i ragazzini nelle miniere a estrarlo? E no, si usano i combustibili fossili, il processo di chiama desolforazione. Ci vuole una raffineria. Sempre lì si fa a finire.

Questo ragionamento lo potete applicare anche ad altre pratiche agronomiche preferite dal bio, come per esempio l’uso del letame. Consigliatissimo, sostanza ammendante e dalle molteplici proprietà benefiche. Il letame lo producono, in genere, le vacche. Contiene micro e macro elementi, tra cui fosforo, potassio e azoto (poco purtroppo, ci vogliano tonnellate di letame per far nascere i fiori). Attenzione, quest’ultimo non è sintetizzato nei 4 stomaci dei bovini. Purtroppo non sono azotofissatori. Il letame contiene azoto se le piante che i bovini ingeriscono sono a loro volta piene di azoto. Se non sono leguminose (fissano l’azoto con l’aiuto di alcuni ceppi batterici) vuol dire che l’azoto contenuto è quello che noi gli abbiamo dato con i concimi chimici. Cioè, i bovini potrebbero coniare una slogan: la mia cacca non è gratis. Anche qui, per concludere, un buon letame, ricco di azoto, proviene dai concimi di sintesi.

È sempre un problema di numeri, per questo sono bio 2.0. Se prendiamo il censimento del 2010, base di riferimento Istat, troviamo che al 24 ottobre 2010 risultano adottare metodi di produzione biologica per coltivazioni o allevamenti 45.167 le aziende, il 2,8 per cento delle aziende agricole totali. Se scomponiamo il dato, notiamo che si coltiva bio più al sud (il 62,5 per cento; Calabria, Sicilia, Puglia) che al nord. In maggior parte si coltivano cereali (il farro, per esempio, è un pianta molto rustica e resistente, ha un buon accestimento e dunque compete con le malerbe: niente diserbo) e prati pascoli (non ci metti niente davvero) poi vite (le malattie della vita in genere si combattono con gli stessi prodotti, sia nel convenzionale sia nel bio) e olivo (ma sopra i 600 metri la mosca non c’è, ed è tutto più facile). Se dovessero aumentare le aziende bio, aumenterebbero anche il consumo dei suddetti agrofarmaci, quelli non di sintesi: ci sarebbero quindi più industrie chimiche specializzate in piretrine, zolfo, calce, rame ecc. E sì, il bio 2.0 preferisce i numeri e non gli aggettivi. I numeri fanno esplodere le contraddizioni, come si diceva una volta. Ho questo amico che mi dice: vieni nella mia azienda bio, non ci metto niente. In effetti, frutteto misto, animali liberi. Erbe da raccogliere e farne insalate. E lo faccio, passo una bella giornata, e tuttavia proprio perché sono stato bene, penso: vabbè, ora invito i miei amici di Facebook, 1.700 e passa, nell’azienda bio. Se facessi così, quelli in poche ore farebbero fuori mele, pere, e tante erbe da insalate. Il coltivatore bio dovrebbe intensificare la produzione, standardizzarla, altrimenti io prendo la pera buona (so come fare) l’altro mio amico quella cattiva. Ci si mette un attimo ad assumere la mentalità fordista non appena cambiano i numeri. Per tutti questi motivi io voglio di più. Siamo in tanti al mondo e l’agricoltura intensiva è una necessità, ma ha un prezzo.

Sono dunque un bio 2.0. Ovvero: realista (devo fare i conti con sette miliardi di persone e con produzione e competizione globale), altruista (voglio che mangino bene anche i miei numerosi amici), sperimentatore (ci sono altri modi per rendere l’agricoltura sostenibile) e un po’ idiosincratico (so che non ne posso fare a meno, eppure meno chimica c’è, che sia naturale o di sintesi, più contento sono). Come fare a soddisfare i requisiti del bio 2.0?

Anche (e non solo) con l’ingegneria genetica. Deve lavorare sulla pianta affinché questa combatta da sola insetti e funghi e sia più efficiente, quindi trovare le resistenze adatte e utilizzarle. Sostengo, ma sono parte di una ristretta avanguardia, che i bio 2.0 debbano lavorare con gli ingegneri genetici, e sostenerli. Per esempio, nell’ambito del realismo di cui sopra, se invece di entrare nei campi con formulazioni spray di insetticida Bt, io prendo il gene del batterio che produce quella tossina e lo impianto, faccio per dire, nel mais? Ottengo dei vantaggi, la pianta produce la tossina, così il lepidottero che la mangia muore, la coccinella che non mangia la pannocchia vive, più biodiversità. Non entro in campo col trattore e non spreco risorse. Lo posso fare con il cotone, e con altre colture, anche per quelle piccole e locali, come per esempio la mela Renetta, attaccata con un coleottero che si nutre di radici. Male non fa, il Bt si usa in agricoltura bio. Nessuno ha mai chiesto il principio di precauzione per quelle coltivazioni bio che fanno uso di formulati a base di Bt.

Oppure ho ettari ed ettari di soia. Devo fare un diserbo. Preventivo. Quindi entro in campo e uso, in alte dosi, diserbanti che distruggono tutto. E tuttavia penso: ah, se potessi prima piantare, poi vedere se davvero nascono le infestanti e dopo decidere come e con quali dosi intervenire. Si dovrebbe creare una pianta resistente al diserbante. C’è! È una pianta ottenuta con l’ingegneria genetica. A questo punto non faccio nemmeno l’aratura (serve anche a distruggere i semi delle infestanti), erpico e semino, così risparmio tantissimo e non degrado il terreno. Poi quanto le piantine spuntano, controllo com’è la situazione e se è necessario ricorro all’erbicida, in dose più basse, insomma vedo quello che c’è in campo. La soia resiste, le malerbe muoiono.

Gli esempi sono tanti, le potenzialità dell’ingegneria genetica anche. Ora più di prima. Perché conosciamo meglio i meccanismi di alcuni geni. Il bio 2.0. desidera, fortemente desidera, l’ingegneria genetica. E soprattuto, siccome ha le sue idiosincrasie, non sopporta tanto le multinazionali e vuole che la ricerca pubblica entri in campo come competitor, e produca specifiche piante per specifici territori. I nostri genetisti sono bravi, più bravi dei tecnici delle multinazionali, ma non possono lavorare, perché in Italia due decreti bloccano la sperimentazioni in campo. Il bio 2.0 essendo avanguardia e un po’ futurista non ha paura di dichiarare: bloccare la ricerca pubblica sugli ogm è una vergogna, e tutto per pigrizia, per non affrontare e spiegare al cittadino i vantaggi dell’agricoltura bio 2.0. Siamo realisti, basta con le ideologie. Le soluzioni ci sono, non una, ma tante, conosciamole, integriamole, e vivremo meglio.

(Pubblicato sul Foglio)

Antonio Pascale

Antonio Pascale fa il giornalista e lo scrittore, vive a Roma. Scrive per il teatro e la radio. Collabora con il Mattino, lo Straniero e Limes. I suoi libri su IBS.