Miracoli artificiali

Secondo principio della termodinamica: l’entropia di un sistema isolato – una misura del suo grado di disordine – non può diminuire, al massimo rimanere costante. Ciò significa che le molecole di una frittata non possono essere programmate per tornare a formare l’uovo di partenza – mio padre poi la fa con maccheroni, patate, broccoli, spinaci, acciughe, alici, e insomma la questione della reversibilità si complica. Da questo principio, gli umani derivano il concetto di freccia del tempo, l’idea che la realtà fisica segue una dinamica, certo un po’ confusa, ma che sostanzialmente presenta un prima (le uova) e un dopo (la frittata). I due punti non si possono scambiare. Il secondo principio della termodinamica è stato da me, già bambino, accettato nelle sue più incresciose conseguenze, per cui sono addirittura portato ad anticipare la fine degli eventi, ne prevedo il disordine con accentuato anticipo (che noia scrivere, sento già la stanchezza alle prime battute).

Per fornire un discreto esempio di questa mia malattia posso fornire i seguenti esempi, scusate il bisticcio (è la confusione entropica che avanza). Per me il Natale finisce il 23 dicembre, dopo che mio padre ha acquistato da Ciccio acqua pazza (va beh, un soprannome), fasolari e cozze e gamberoni. Quando torna a casa e comincia a preparare il pesce per il giorno dopo, io già penso che tutto è finito, salto mentalmente il cenone dell’ultimo dell’anno e mi vedo proiettato verso la primavera.

L’estate finisce il giorno di San Giovanni Battista (chissà se il santo ha a che fare con il concetto di entropia, bisognerebbe chiedere a Tondelli), che è il solstizio d’estate e allora penso all’inverno, nonostante il caldo, mi immagino già in inverno, sotto un plaid. Con le donne ancora peggio (qui è veramente la vecchiaia), l’attimo stesso in cui, magari conversando mi accorgo che io o lei stiamo per diventare intimi – quel cambio di passo, la postura più aperta, meno scontrosa, gli occhi lucidi, il sorriso che affiora, la consapevolezza che seppure senza trucco o con la faccia distrutta dall’insonnia in quel momento per l’altro/a sei bello/a, la sensazione che fra poco vi bacerete e la vostra mente comincerà a elaborare una serie di immagini forti e rassicuranti, salde – in quell’istante già mi prefiguro la prima litigata che avverrà nel giro di poco e riguarderà la scarsità di tempo, appunto, e di impegno che, secondo loro, io metterei in questa storia, e quindi, da allora in poi, e tranne fortunati casi di donne più uniche che rare (con le quali è bello invecchiare e litigare e capire l’istante preciso nel quale, per esempio, lei si muove, minimamente, perché chessò vuole qualcosa e tu anticipi la sua voglia) cominceremmo ad allontanarci – e la mente produrrà immagini opposte, di dissoluzione e allontanamento: la frittata è fatta.

Indubbiamente sto messo male, e tendo ad accelerare il processo entropico un po’ per rassicurarmi: te l’avevo detto io che finiva così… un po’ per non avere aspettative alte, cadere dal gradino basso non è così pericoloso, un po’ perché la consapevolezza del tempo che passa mi rende più vivo e all’erta, quasi come se fossi obbligato dalla scarsità di tempo a fare del mio meglio, e non solo per godermi l’attimo -l’attimo è già perso, la sua molecola va verso l’entropia – ma perché giocare con il tempo che passa ha un vantaggio: me ne deriva l’impressione che ne avanzi ancora tanto. Come dire: ho sbagliato le previsioni e ci sono sempre uova nel mio frigo e le frittate vengono bene, insomma io voglio, accelerando il disordine, tentare di trovare un ordine – seppure momentaneo – un piacere – certamente effimero – un miglioramento che di sicuro non mi risolve la vita ma mi dà la sensazione che c’ho provato e magari d’ora in avanti posso partire da un gradino più alto – perché non tornerò mai dov’ero mai (no, dice Lindo Ferretti) e infine, tutto questo per dirvi che è necessario trasformare una malattia in un vaccino, un limite in una qualità e credo che questo meccanismo abbia favorito la nostra storia evolutiva fino da quando ci staccammo dalle scimmie antropomorfe. Siamo animali che hanno la freccia del tempo fissa davanti agli occhi, il nostro grande dono è la nostra grande dannazione. E sono sicuro – e la mia è una sicurezza da scrittore annoiato, che tendiamo a migliorare, alcuni di noi più degli altri e non perché vogliamo il mondo più bello, migliore, pulito e sostenibile, no questi sono accidenti fortunati e postumi, ma perché vogliamo trovare un senso di decenza a un scorrere indecente (porca miseria, si muore, ma no morire, suvvia, no no) e un posto pulito, illuminato bene, dove ripararci in caso di bisogno.

(Ora dico io, sono alla Feltrinelli di Milano, sono le 18.18, la Roma ha perso, mio figlio è distrutto, il Napoli ha vinto e sono contento e al tavolo sul quale mi sono appoggiato per scrivere, vicino a me c’è una ragazza molto carina che sta leggendo sei libri, dico sei, sull’autostima e due sull’oroscopo, ma perché? Potresti conquistare tutta la Feltrinelli e invece… che faccio glielo dico? no vabbè, mi sto già immaginando che andrà tutto male e litigheremo.)

Ora, c’è un momento in cui questo disordine naturale, la freccia del tempo, si interrompe, si spezza – solo un attimo naturalmente – prima di ricomporsi. A parte quei gradevoli istanti post amore, quando troppo stanchi per alzarci stringiamo gli occhi e mettiamo a fuoco ogni cosa, registriamo con interesse scientifico e analitico la vita che ci passa avanti prima di essere riportati nella bolgia, ma a parte quei gradevoli istanti, per me la freccia del tempo si ingobbisce, liberando il piacere della pausa, quando guardo il grano. Deformazione professionale? Non so, fatto sta che quando guardo un prato verde di grano, magari in procinto di accestire (è un termine tecnico agronomico, ma l’effetto poetico sussiste lo stesso), io ho un afflato cosmico e rivedo la storia dell’umanità intera. Me la figuro (questa storia) come un’inconsapevole corsa contro il tempo nel tentativo di migliorare la pianta che ci ha sfamato per millenni. Immagino questa storia come il passaggio dalla semplicità alla complessità e il tentativo di governare una materia sempre più accesa e febbrile. E immagino che solo una parte di noi ha preso parte (mannaggia le ripetizioni) a questo miglioramento, anzi molti di noi non ne sanno niente.

Il grano è un mostro genetico: è esaploide. Ogni gene ha sei copie, mentre la maggior parte delle creature ne ha due. I suoi 21 cromosomi contengono 16 miliardi di coppie base di DNA, 40 volte quelli del riso, 6 volte quelli del mais e 5 quelli degli umani. Deriva da tre specie ancestrali incrociatesi due volte: il primo ha avuto luogo nel Levante 10.000 anni fa, il secondo, vicino al Mar Caspio circa 2000 anni dopo. Ne è risultata una pianta dai semi molto grandi che non si spargono facilmente su terreni incolti e sono totalmente bisognosi dell’intervento umano per la semina – non è commovente tutto questo?

Chi fu il primo a ripiantare i semi e perché? Pare una donna. Insomma, nelle società di cacciatori-raccoglitori le donne hanno (ancora) la responsabilità principale della raccolta delle piante. Come accadde? Per disperazione (i cacciatori raccoglitori, da me tanto amati e nei quali romanticamente mi piacerebbe incarnarmi, se credessi alla reincarnazione si intende) avevano distrutto l’80% della macrofauna presente sulla terra. Poi ci lamentiamo di oggi. O fu un’ispirazione poetica? Dei chicchi abbandonati vicino a degli insediamenti umani che si misero a germogliare? E una donna se ne accorse? Fatto sta che la pianta del grano sviluppò tre nuove caratteristiche adatte ai nuovi coltivatori: i semi divennero più grossi; il rachide che tiene insieme i chicchi diventò più robusto così da poter cogliere non il singolo chicco, ma la spiga; le glume a forma di foglia che rivestivano ogni seme si sciolsero così da rendere non necessaria la battitura. In sintesi questo significa che abbiamo cambiato o spostato geni, significa che i nostri progenitori erano degli “ingegneri genetici” niente male. Ciò significa che la pianta divenne dipendente dall’uomo e che l’uomo ne divenne schiavo.

Chi ce l’ha fatto fare? mi chiedo nelle notti insonni, stressato dal tempo moderno, il tempo che scorre, rumina tutto e appiattisce ogni cosa. Da cacciatori lavoravamo tre ore al giorno, mangiavamo 170 specie diverse. I resti fossili evidenziano uomini forti, magri, senza problemi alle cartilagini, e niente carie. E invece, per il grano ci siamo chinati sulla schiena, abbiamo sviluppato osteoporosi, carie, si è abbassata anche l’età media e la statura, ma intanto… grano, crescita della popolazione e in poche generazioni la marcia dei coltivatori di grano spazzò via i cacciatori-raccoglitori, introducendo ovunque passassero la loro lingua madre, l’indoeuropeo, dalla quale hanno tratto origine sia il sanscrito che l’irlandese.

Circa 5000 anni fa il grano si era diffuso in Irlanda, Spagna, Etiopia e India. Mille anni dopo, all’incirca, entrò in Cina; il riso greggio era lontano migliaia di anni. Dovunque andarono, i coltivatori portarono i propri usi: non solo la semina, la mietitura e la battitura, ma la cottura, la fermentazione, il possesso, l’accaparramento. Intorno a 9000 anni fa avevano bestiame da allevamento, nutrito con grano, che forniva latte e carne. Ne ricavavano anche il letame, prezioso per la fertilità dei campi. Attorno a 6000 anni fa qualcuno inventò il primo aratro, per smuovere le zolle, seminare e separare il semenzaio. Con lentezza, nella coltivazione del grano, vennero le innovazioni.

Breve riepilogo. Nel terzo secolo prima di Cristo, in Cina: collare per cavalli. La mancanza di pressione sulla trachea dell’animale gli permise di trasportare pesi maggiori. Nel 1701 il coltivatore Jethro Tull (si, mi sembra che il nome del gruppo sia preso da questo coltivatore, ma chiediamo a Sofri) inventò una seminatrice a canne d’organo che permise una raccolta 8 volte superiore alla normale resa di un seme. Fu diffamato, come molti agricoltori dopo di lui. Un secolo dopo la trebbiatrice fu salutata in mezzo ai tumulti. Nel 1815 una gigantesca eruzione vulcanica a Tambora in Indonesia portò al famoso “anno senza l’estate”. In Francia ci fu un freddo intenso in agosto. I prezzi del grano raggiunsero livelli prima mai superati. Un’apoteosi per Thomas Robert Malthus.

Già nel 1798 aveva previsto un calo della popolazione basato sul calcolo di un impossibile aumento dei campi di grano rispetto alla velocità delle nascite: ogni nuovo nato può far nascere altri individui, mentre ogni nuovo campo di grano lascia meno nuova terra da coltivare. Il crollo malthusiano fu evitato nel 1800 grazie alla coltivazione di nuove terre in Nord America, Argentina e soprattutto Australia. Ma i raccolti peggioravano se le sostanze nutritive del suolo venivano troppo sfruttate. Così nel 1898 sir William Crookes, un chimico, sostenne ancora in un discorso davanti all’Associazione Britannica che, tempo una generazione, l’inedia sarebbe stata inevitabile. Ma arrivò il trattore che scongiurò il disastro della profezia malthusiana. La sostituzione di animali da tiro con le macchine portò a un incremento del 25% di terreni coltivabili per uso alimentare umano.

Tuttavia il limite malthusiano si sarebbe sicuramente raggiunto, un giorno. 1830: il guano. Al largo delle coste sudafricane e sudamericane, sulle aride isole ricche di uccelli di mare si erano accumulati per secoli immensi depositi di sterco d’uccello ricco di azoto e fosforo. Scavare guano diventò un affare interessante e feroce. Il 2 luglio 1909 Fritz Haber con la collaborazione dell’ingegnere Carl Bosch della BASF riuscì a combinare azoto dell’atmosfera con idrogeno ottenuto da carbone e ottenere ammoniaca. Oggi quasi la metà degli atomi di azoto nelle proteine di un normale corpo umano provengono prima o poi da uno stabilimento di ammoniaca – ah l’azoto di Haber fu respinto, come già era successo con la seminatrice: per molti agricoltori la bontà del letame non poteva essere ridotta a una polvere bianca.

1952, Norman Borlaug prese varietà di grano Norin e degli ibridi Norin-Brevor, li portò in Messico dove iniziò a crescere nuovi incroci. Spostò geni su geni, e immagino, spesso a casaccio, senza avere cognizione di cosa spostava, ma in pochi anni produsse grano in quantità tre volte maggiore che in passato. Nel 1963 il 95% del grano messicano veniva dalla varietà Borlaug e il raccolto dell’annata superò di sei volte quello iniziale dal suo arrivo nel paese. Nel 1961 Borlaug fu invitato in India dal consulente del ministro dell’agricoltura, M.S.Swaminathan. L’India stava andando verso una carestia di massa. L’ambientalista Paul Erlich scrisse il libro più venduto in quel momento, nel quale affermava che nel mondo c’era “troppa gente”. La morte per inedia era inevitabile, non solo in India, ma nel mondo. Borlaug arrivò in India nel marzo 1963 e iniziò a provare tre nuove varietà di grano messicano. I raccolti furono 4-5 volte migliori di quelli con le varietà indiane. 1974 l’India triplicò la produzione di grano e divenne autosufficiente. Da allora non ci sono state carestie – nel 1970 venne assegnato a Borlaug il Nobel per la pace per aver dato il primo via a quella che sarà definita “la rivoluzione verde”, “all’uomo che portò pane nella convinzione che chi porta pane porti anche pace”.

Così guardo i campi di grano e penso: ne abbiamo passati di momenti bui, però ecco, guardate ora questo prato verde, così ondulato e dolce agli occhi. Guardiamolo perché nonostante i benefici i costi sono stati alti e la gestione di questi ultimi è appena cominciata. Come fare? 9 miliardi di persone da nutrire non sarà uno scherzo. Ci vorrà il 35% di calorie in più rispetto a quanto coltivato oggi, probabilmente di più se una parte crescente di quella popolazione dovrà avere carne più di una volta al mese (occorrono 10 calorie di grano per produrre 1 caloria di carne). Il che vuol dire o campi migliori, piante che producano con minor input energetici (meno azoto, fosforo e potassio, meno suolo, e che si difendono da soli dagli insetti e dai patogeni: bisognerà lavorare sul DNA e ora possiamo farlo con più precisione) o meno foresta pluviale: il che vuol dire che le opere dell’ingegno umano, fertilizzanti, agrofarmaci e trasferimenti di geni sono state quelle opere che hanno protetto il pianeta.

Pane e pace, penso, preso come sono dall’afflato mistico, ma in realtà dalla consapevolezza che il mondo si migliora se si migliora e si potenzia la tecnologia, e dunque la cultura a loro sottointesa, e penso ai biologi, ai genetisti (precari e sottopagati, irrisi), agli ingegneri, ai microbiologi, ai chimici e penso: no, nonostante quello che immagino, non è finita qui: sì va bene, andremo verso il disordine, è inevitabile, ma mentre giochiamo con il tempo, non sentite il fruscio di questo prato verde appena mosso dalla brezza pomeridiana? non vedete la bellezza accogliente del grano? Come è stata proficua la nostra inquietudine! Chissà perché stiamo qui? alzi la mano chi conosce la risposta. Finché non avremmo una risposta sicura ci toccherà procedere per tentativi e arretramenti e avanzamenti successivi e in questa sequenza, di tempo che si sfalda e poi si ricompone, noi dobbiamo essere capaci di dire qualche sì, fare dei tentativi. Facciamoli e facciamoli bene, con più precisione e attenzione, ma facciamoli.

Davanti a me, disteso come un vecchio addormentato, questo campo di grano contiene il passato e il futuro, e mi piace, preso dalla mia pausa, immaginare il resto del tempo che mi spetta, ma poi mi giro e dietro di me, come un incubo, un’allucinazione, c’è l’Italia: accucciata, al calduccio, immersa nel suo presente, nei suoi ricordi, tutto un coro di no, no a questo, no a quest’altro, fanfarona e incompetente, che dice: ma chi ce lo fa fare, uscire, fare comparazioni, progettare. Noi abbiamo addolcito anche l’entropia, nemmeno proviamo a trovare quel momentaneo punto di equilibrio, dai, ci diciamo, lasciamo stare, e pensiamo a invecchiare tranquillamente. Magari giusto per disturbare il tempo, blateriamo un po’.

PS: le informazioni sul grano sono prese dal un famoso articolo dell’Economist qui
PPS: la ragazza carina ha comprato i sette pilastri della saggezza, mah? Forse le sarebbe utile una storia del grano?

Antonio Pascale

Antonio Pascale fa il giornalista e lo scrittore, vive a Roma. Scrive per il teatro e la radio. Collabora con il Mattino, lo Straniero e Limes. I suoi libri su IBS.