Storie attorno al muro tra Messico e Stati Uniti

Ho finito il documentario per Rai Cinema girato in Messico. L’idea era di un anno fa. C’era Obama e si dava per probabile la vittoria di Hillary. Mi sembrava interessante andare a vedere, cercando storie, come i dati sulle deportazioni (impressionanti, un record) negli otto anni di Obama alla Casa Bianca hanno modificato la composizione, la demografia del circa mezzo milione di migranti che continuano ogni anno ad attraversare il Messico per arrivare negli Stati Uniti.

Solo nell’ultima fase la politica migratoria di Washington era cambiata, anche per evidenti ragioni elettorali. Il blocco latino appariva fondamentale per la vittoria di Hillary. O anche solamente, forse, Obama stesso aveva capito che il “sogno americano” è il DNA degli stessi Stati Uniti. Se vogliamo darci una spiegazione meno cinica.
E così in stati di grande concentrazione di immigrati senza documenti (New York, California) gli “undocumented” hanno cominciato a uscire dal buio ed è stato possibile dare loro una carta d’identità. Questo significa che ora in questi stati è depositato un magazzino di dati che potrebbe essere utilizzato per le deportazioni. I migranti che da anni vivono a New York e in California si sono fidati.

Poi è arrivato Trump. Con le promesse elettorali che conosciamo. La televisione, la stampa hanno cominciato a raccontarci storie strazianti di madri separate dai loro figli adolescenti. I giovani nati negli Stati Uniti sono evidentemente cittadini americani. I genitori no e quindi deportabili. Storie che in qualche caso sono accadute anche prima. Ora se ne parla tanto perché Trump ha interesse a dire che mantiene le promesse e i media per le stesse ragioni.

Intanto in Messico i migranti continuano a salire su “La Bestia”, i treni merci che attraversano il paese, ora sorvegliati a tratti da polizie private e dall’esercito. Sempre più difficile e pericoloso. Arrivano in tanti da Honduras e Salvador, i paesi in cui le gangs uccidono adolescenti che non accettano le regole criminali (giovani donne violentate e giovani uomini al soldo dei narcos). Questi due paesi sono un’emergenza umanitaria ignorata da anni.Poi ci sono gli altri, che arrivano da tutto il mondo. A volte dopo due anni di viaggio come abbiamo sentito da asiatici ed africani. E ancora, i cubani ora parcheggiati in luoghi di ricovero perché è saltato il principio che bastava mettere piede sul suolo americano per ottenere lo stato di rifugiato. I messicani, sempre meno. Nel paese c’e un’offerta di 870mila posti di lavoro qualificati. Il Messico è in crescita, lontano dall’immagine macchiettistica rimandata da Trump. Il “sogno americano” nei prossimi anni è destinato a diventare il “sogno messicano”.

Nelle settimane passate ho incontrato tanti giovani in viaggio. Una migrazione che segue strade battute da decenni da centinaia di migliaia di migranti prima di loro. La scorsa settimana negli Stati Uniti è stato dichiarato un giorno “senza migranti” che in molti casi non si sono presentati al lavoro. Risultato, chiusure a raffica di esercizi commerciali e altro. Poi ho incontrato bambini che viaggiavano soli.

Sui migranti e il ridicolo muro Trump ha costruito la sua vittoria elettorale e quindi ci aspettano anni di notizie sulla questione. Ai tempi di Obama erano trafiletti. Ora sono prime pagine. Io pensavo di fare un documentario ai tempi di Hillary. Ora è un documentario ai tempi di Trump. Ho girato a dicembre e gennaio. Per me non è cambiato niente.

Mejores dias veran (Verranno giorni migliori) è il titolo del documentario.

Andrea Salvadore

Vive a New York e fa il regista. Ha un blog, Americana Tv