Dear white people

Avere la pelle nera in America è cosa diversa da averla in Italia. Storia aperta per gli afroamericani, non chiusa da Obama alla Casa Bianca. Solo recentemente i casi Trayvon Martin e Ferguson stanno a ricordarcelo.
Un film, arrivato da una settimana nei cinema, dopo aver vinto il premio della giuria al Sundance per un esordiente (Justin Simien, 31 anni) ci racconta una storia complessa, definita dalla critica “satira”. A me è sembrata una storia vera.
Quando avevo provato ad andare a vedere Dear White People (Cari bianchi) a New York, all’ultimo minuto, era esaurito. A Miami, invece, sala mezza vuota e, a metà proiezione, un gruppetto di giovani schiamazzanti (pelle bianca) ha mollato il film. Non so se frequentino una università elitaria come quella fiction del film ma comunque non hanno gradito.

La storia è quella di un gruppo di studenti di colore in un college ivy league (le università storicamente ai primi posti di classifiche e selezioni). C’è la ragazza nata da un “matrimonio misto” (come Obama) che è autrice del programma per la radio interna del campus titolato Dear White People; altri suoi compagni sono impegnati a farsi accettare dalla maggioranza di studenti bianchi (ricchi) o, al contrario, rifiutano l’assimilazione. Quando viene convocata una festa in cui il cui tema è quello di “liberare la negritudine che è in voi” e il risultato sono maschere di stereotipi culturali della minoranza afroamericana (rappers, criminaloidi e ingioiellati e ragazze supersexy) allora scoppiano incidenti scatenati da uno dei ragazzi di colore (gay non dichiarato).

Presidente e rettore sono l’uno bianco e l’altro nero e Samantha, la ragazza della radio, ha due relazioni parallele, con un ragazzo bianco e con uno nero. Insomma il film è come una matrioska che contiene, una dentro l’altra, rappresentazioni simboliche e figurate di storia del movimento di emancipazione degli afroamericani. Con una forma cinematografica ibrida, mutuata da Spike Lee ma anche da Wes Anderson, Justin Simien ha costruito una parabola molto verosimile.
Ci ha messo tanto tempo. Ha dovuto far lievitare la sua idea lungo un arco di cinque anni, passando attraverso campagne sui social e crowdfunding. E il risultato è un film che non è un filmetto. Difficile da digerire, nella sua apparente leggerezza. Ti rimane sullo stomaco come un mattone. Perché c’è tutto. Privilegi di classe e ipocrisie culturali che diamo per scontati e che hanno radici ben piantate anche dentro di noi e “quelli che vorrei la pelle nera”. Vale per noi visi pallidi ma anche per gli ex schiavi liberati. Simien non risparmia i luoghi comuni ovunque siano nascosti. E così viene da pensare che il finale “obamiano” sia in realtà, questa si, solo satira.
E, dimenticavo parlando di mattoni, il film non è una mattonata. Si ride parecchio.

Andrea Salvadore

Vive a New York e fa il regista. Ha un blog, Americana Tv