Casa Pound e le scuole private: «dimmi con chi vai»

Il 26 maggio, i bolognesi dovranno esprimersi in un referendum consultivo che ha davvero, sul piano simbolico, valenza nazionale. A Bologna (e non solo, ovviamente), vi è un sistema di convenzioni attraverso il quale il Comune sostiene il servizio pubblico svolto dalle scuole dell’infanzia paritarie. Si tratta di contributi per circa un milione di euro l’anno. Nella vulgata, sono “soldi alle scuole private”, che impoverirebbero quelle statali. A difesa dello status quo (“opzione B”, sulla scheda elettorale), a Bologna, è schierato il sindaco, con lui il PD, i cattolici, il PDL. Dall’altra parte (“opzione A”), la Fiom, SEL, il Movimento Cinque Stelle, e, sorpresa, i giovani di Casa Pound.

Proprio questi ultimi hanno spiegato nel modo più efficace le ragioni del referendum, e hanno preso di mira le scuole private, d’ogni ordine e grado, con una serie di proteste in tutt’Italia. In buona sostanza, il ragionamento è questo: mancano soldi per fare funzionare bene la scuola statale, il modo più facile e sensato per reperirli è smettere di darne alle paritarie.

L’argomento è piuttosto lineare, e chiarisce bene credo ciò di cui si sta parlando. Non stiamo discutendo infatti di come fornire un servizio (l’istruzione) che la collettività nella quale viviamo ritiene debba essere finanziato attraverso la tassazione. In quel caso, infatti, ci divideremmo sulla risposta da dare a ben altre domande. Per esempio: come far sì che tutti coloro che pagano le imposte, nella ragionevole convinzione che ciò serva anche a sostenere la scuola dei loro figli e dei figli dei loro vicini di casa, siano abbastanza soddisfatti del servizio che viene loro fornito. Oppure: come far sì che le scuole mantengano la loro promessa fondamentale, cioè “attrezzare” gli studenti con conoscenze e competenze utili per comprendere meglio il mondo che li circonda e anche per trovare un posto di lavoro.

Non sono queste le questioni con cui ci stiamo confrontando. Se ci interessasse la qualità dell’istruzione, dovremmo ammettere che l’esperienza ci insegna che forse la concorrenza non funziona sempre nel modo che auspicheremmo, ma funziona tendenzialmente meglio del monopolio. Il problema del rapporto fra scuole statali e scuole private sta nel renderle effettivamente competitive le une con le altre, in un contesto nel quale esse possano differenziarsi e imparare dai rispettivi modelli di gestione. Perché ciò avvenga, le famiglie e gli studenti dovrebbero davvero “poter scegliere”: portare il proprio “buono-scuola”, la propria quota capitaria di finanziamento, dove desiderano. Oggi le cose non vanno in questo modo. Le famiglie non hanno in mano un “voucher” che possono scegliere di spendere da una parte o dall’altra: il finanziamento degli istituti dipende dai decisori, non dal gradimento che essi suscitano.

Le paritarie sono parte integrante del sistema pubblico. I bolognesi che sostengono l’“opzione B” sottolineano che quelle scuole materne accolgono il 21 per cento degli alunni, a fronte di finanziamenti che pesano per il 2,8 per cento di quanto il Comune investe in quest’ambito. Non è un cattivo affare.

Difendendo il monopolio “senza se e senza ma”, Casa Pound e compagni ambiscono a tutelare, per dirla piatta, il pubblico impiego. In altri tempi, l’opposizione alle scuole private in Italia è stata semplicemente il tentativo di salvaguardare la scuola “laica”. Quest’approccio era cieco innanzi ai potenziali effetti dinamici della concorrenza (se le famiglie disponessero di voucher e potessero esercitare la loro libertà di scelta, non è detto che l’offerta resterebbe quella che è oggi), ma appariva improntato a ragioni ideali “forti”. L’impressione è che oggi la polemica laici/cattolici si sia di parecchio annacquata, e che emergano motivazioni più profonde. Chi si batte per la tutela dello status quo è preoccupato non dell’accesso al servizio da parte di tutte le famiglie, e neppure dell’indottrinamento clericale, ma della tutela dell’occupazione nella scuola pubblica. Teme che quella penuria di fondi che ha impoverito le scuole arrivi a toccare anche i salari di chi ci lavora. Il dibattito, allora, non è poi così lontano da altri nei quali Casa Pound è molto “attiva” (pensiamo all’immigrazione). Anche in questo caso, abbiamo a che fare con il bisogno di difendere un “noi”, depositario di certi “diritti”, a spese degli altri.

Se ragioniamo infatti come contribuenti e fruitori di un servizio pubblico, i fondi alle scuole paritarie non sono “distratti”: sono semplicemente allocati a vantaggio di quella domanda che preferisce – per motivi i più diversi – la loro offerta a quella delle statali. Questi quattrini sono “persi” solo se adottiamo il punto di vista di chi riterrebbe di averne diritto, perché rappresenta il settore Pubblico con la P maiuscola. Non è il caso di sminuirne le preoccupazioni, comprensibili, circa la sostenibilità del sistema. Ma che uno si ritenga titolare di un diritto sui quattrini del contribuente, non in ragione del servizio che concretamente offre ma perché così dev’essere, forse di quel sistema rappresenta una stortura: non un retaggio da conservare.

Alberto Mingardi

Alberto Mingardi (1981) è stato fra i fondatori ed è attualmente direttore dell’Istituto Bruno Leoni, think tank che promuove idee per il libero mercato. È adjunct scholar del Cato Institute di Washington DC. Oggi collabora con The Wall Street Journal Europe e con il supplemento domenicale del Sole 24 Ore. Ha scritto L'intelligenza del denaro. Perché il mercato ha ragione anche quando ha torto (Marsilio, 2013). Twitter: @amingardi.