Uomini a una dimensione

Non è neanche giusto prendersela con Giulia Sarti se il suo commento alla scomparsa di Giulio Andreotti è stato, secco, lapidario e impietoso: «È morto il condannato prescritto per mafia».
Giulia Sarti, deputata di Grillo, ora ha 27 anni e ne aveva 5 quando Andreotti fu nominato senatore a vita ed entrò nell’ultima e più controversa fase della sua interminabile attività pubblica. Per lei e per tanti non ancora trentenni, Andreotti è più o meno solo quello del processo di Palermo, con una confusa aggiunta di colpe risalenti alla P2 e alla strategia della tensione.

Un uomo a una dimensione. Più che negativa, diabolica. Proprio lui che all’opposto ha incarnato la duplicità e anzi la molteplicità dell’azione politica, accompagnando la storia repubblicana dalla nascita alla crisi, attraverso ogni conquista e tragedia. L’uomo simbolo della duttilità, irrigidito in una figurina del male.

Qui non interessa dare un giudizio su Andreotti: altri sono più titolati a farlo, comunque sarebbe un giudizio articolato, specchio delle controversie suscitate dalla persona.
Interessa il dramma del venir meno della memoria, magari proprio da parte di quelli che se ne fanno tedofori. Interessa la semplificazione, la banalizzazione, la riduzione di fatti e persone a bianco o nero. Buono o cattivo. Eroe o vile. Vittima o carnefice. Santo o perfido. Puro o compromesso. Vero o falso.
Queste sono le categorie cruciali del giudizio, sono inaggirabili. Basta sapere, quando ci si fa un’idea, che la vita e la politica sono però sempre un miscuglio, si muovono tra gli opposti e ne sono le risultanti.

Per passare da un grande a un piccolo esempio, qualche sera fa ho avuto in tv una discussione animata con una persona che stimo, Stefano Rodotà. Esprimevo valutazioni politiche critiche, delle quali sono convinto. Lui e molti con lui hanno reagito come a un affronto personale. Sulla rete s’è acceso un breve ma intenso dagli all’untore. Perché Rodotà, di questi tempi e in una parte di sinistra, non è una persona pubblica a più dimensioni, quindi alla lettera discutibile: è un simbolo del bene, un idolo, un’icona.

Questo non va bene. Accade ormai in continuazione, nella santificazione o nella demonizzazione, e non è sano. Fa perdere di lucidità, di prospettiva. Appiattisce vicende e personalità complesse, spesso oltre le loro volontà. Perfino intorno a un “uomo normale” come Bersani c’è stato chi ha allestito un provvisorio culto della personalità.

Ora Andreotti entra nella storia, dove sarà trattato con maggiore attenzione e rispetto. Non sarebbe male se ricominciassimo a usarne anche nella banale cronaca.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.