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  • Martedì 9 settembre 2014

Un mese senza internet e il mio metabolismo è rallentato

 

Dal 31 luglio al 6 settembre ho scelto di disconnettermi da internet e vedere cosa sarebbe successo. Ho preso il borsone e come ogni anno mi sono trasferito nella casa al mare. Perché l’ho fatto? Cosa volevo dimostrare? La supremazia della vita reale rispetto a quella virtuale?

Forse sì, forse no. Forse volevo solo vedere cosa sarebbe successo giorno dopo giorno. Se sarei crollato a terra in preda a brividi di ferro o se la notte sarei riuscito a dormire senza che un bambino mi fosse apparso sul soffitto. Sono stato uno stolto? Ho sottovalutato la cosa o la sto solo sopravvalutando?

Nella piccola casa sulla costa tirrenica calabrese a fine luglio faceva freddo e pioveva. Sembrava ottobre e il mare era sempre agitato. Il clima ideale per sbirciare un po’ di vite altrui su Facebook, cucinare qualcosa di inconsueto, fotografarlo e postarlo su Instagram con un bel commento intelligente barra ironico postmoderno. Contare i mi piace. Interagire con gli utenti tramite faccine gialle, cuoricini, punti esclamativi. Non ho fatto niente di tutto ciò. Ho comprato giornali e decine di riviste all’edicola più vicina. Scegliere quella giusta richiedeva tempo e lucidità. La maggior parte erano dedicate alla pesca, alla casa, alla cura della persona e alla barche. L’odore di erba presente nell’edicola complicava le cose. L’edicolante, un uomo con i capelli lunghi e il pizzetto che sembrava appena tornato da Woodstock, mi disse che la rivista più venduta era la settimana enigmistica. Solo d’estate, però. Risolvere cruciverba e rebus sulla spiaggia: ecco una cosa che ho scoperto piacere alla gente in vacanza. Perché solo d’estate? E l’inverno? L’edicolante non aveva la risposta e mi guardò come se gli avessi chiesto se esistesse o no la divinità.

I momenti più difficili senza internet erano la mattina quando mi sedevo sulla tazza del water. Senza connessione, tutti i limiti del mio Ipad venivano a galla. C’era qualche giochino, certo, qualche inutile strumento musicale o applicazione per disegnare. Me ne stavo seduto in attesa di liberare l’intestino disegnando strane figure artistiche concettuali (sovrapponevo triangoli e quadrati e poi li coloravo con tinte fosforescenti) oppure suonando una mini batteria digitale. Senza internet, chissà perché, il mio metabolismo rallentò di colpo e le sedute in bagno aumentarono di colpo. Non era più piacevole stare sulla tavoletta senza saltare da un link a un altro. Potevo sempre leggere un libro, direte voi, o una di quelle riviste che compravo. Ci ho provato, era peggio.

Ho comprato la settimana enigmistica solo una volta e ci ho messo tre giorni per risolvere i due cruciverba facilitati a metà pagina. E allora non l’ho comprata più.

Ho letto, in ordine sparso: La Gazzetta dello Sport (in modo maniacale gli ultimi giorni di agosto perché si avvicinava l’asta del fantacalcio), il Corriere della Sera, La Gazzetta del sud, Focus (ho scoperto che la sostanza che ci fa appassionare a una donna, un libro o a un cane è la dopamina), Focus Storia, Internazionale (in un articolo c’era Dave Eggers nel deserto dell’Arabia Saudita in balia di una preoccupante crisi paranoica barra di panico), Runners World (eh già, sono uno che fa running), Rivista Studio, Wired e alcune riviste di pesca, salute, cucina delle quali ho rimosso il nome.

Dal punto di vista sociale senza internet è stata dura sentirsi partecipe e non come uno di troppo nel gruppo. La mia astinenza doveva essere totale, così mi rifiutavo anche di dare un’occhiata ai video o ai link o a qualsiasi cosa i miei amici mostravano sulla spiaggia e loro per un po’ pensarono fossi impazzito. Feci fatica a dire di no solo alla foto scattata sott’acqua con la fantastica mini macchina fotografica di A. (una full hd da 450 euro). Nella foto siamo in 5 e ci scattiamo un selfie nelle profondità del mar Tirreno.

Ho letto anche 6 romanzi: Stella distante (Bolano), Rayuela (Cortazar), End Zone (DeLillo), Terre al crepuscolo (Coeetzee), Il Signore degli orfani (Adam Johnson), L’uomo che cade (DeLillo).
Con Internet ne avrei letti solo la metà. Quello che più mi è piaciuto è stato Rayuela (come potrebbe essere diversamente?). Il peggiore senza dubbio Il Signore degli orfani.

Ho rivisto il selfie sott’acqua un giorno fa. Avevo gli occhi chiusi.

Senza internet ero l’ultimo a conoscere data, luogo e orario di qualsiasi evento (non che io, la mia compagna e i miei amici siamo mai stati “tipi da evento”), ma anche una pizza diventava una questione di ultimo momento. E avevo sempre poco tempo. Per uscire dal mare. Per farmi la doccia. Per tentare una seduta veloce in bagno (non si sa mai).
Ero sempre di fretta, ma a pensarci bene di fretta lo ero anche avendo internet quindi la cosa c’entra ben poco con questo articolo.
Andiamo avanti.

Senza internet ho corso tutte le mattine, ho dormito tutti i pomeriggi dopo pranzo, ho scritto 100 cartelle del mio romanzo (un progetto lungo di cui non accennerò nulla) e ho passato due ore al giorno con mio nonno che mi raccontava gli anni 40 – 50 in Italia quando lui e gli altri bambini del quartiere rubavano i copertoni dalla camionette degli americani. Di quando faceva il pane nel forno e ci mangiavano in dieci e di come è morto suo padre.

Senza internet sembrava che mi fossi nascosto da tutti. Una sparizione momentanea, mi immaginavo comparire su Chi l’ha visto. Una casella mail intasata di pubblicità. Notifiche.
Ma in fondo cosa mi ero perso? Qualche tag, la possibilità di un commento ironico, qualche video divertente, qualche immagine pornografica, qualche aggiornamento software, qualche foto di tramonto, di cibo, di visi di persone sconosciute in primo piano.

Non sapevo, però, di essermi perso dozzine e dozzine di Ice Bucket.

Il padre di mio nonno è morto di infarto. Una mattina. Camminava in un campo, ai piedi di una collina. Poi sentì un rumore. Il rombo di un motore. Ma non veniva da terra, piuttosto dal cielo. Era un aereo. Davvero un aereo. Il padre di mio nonno restò con la testa verso il cielo e corse verso l’aereo e tentò di salire la collina per poter vedere meglio quella macchina volante. Ma la collina era ripida e faceva caldo e poi c’era una componente genetica da non sottovalutare. Arrivò l’infarto e il padre di mio nonno morì – mi disse mio nonno – con lo stupore negli occhi.

Mi sono emozionato per piccole cose. Per l’odore della spiaggia all’alba, quando si sente solo il rumore delle onde, qualche anima di ritorno dalla movida notturna.
Oppure per il tramonto e per il verso dei gabbiani. Planano sulla spiaggia nello stesso punto, uno per volta, ogni sera mezz’ora prima del tramonto. Quando il sole viene risucchiato dal mare loro riprendono il volo e tu li guardi con addosso una specie di dolce malinconia e di invidia.
Mi sono emozionato anche un giorno sul gommone di un amico. Tra la spiaggia e l’orizzonte. C’era una pace paradisiaca, prima che si alzasse il vento e di conseguenza il mare, prima della paura e della crisi isterica.
Poi, visto che sono uno che si emoziona facilmente mi sono emozionato anche per altre cose: aspettare l’alba con la mia compagna, una partita di beach volley con parenti e cugini e per il barbecue di ferragosto (ma quel giorno ero ubriaco e forse mi sono emozionato per questo).

Praticamente la gente famosa (chiunque) ha passato l’estate a farsi gettare sul corpo dell’acqua gelata. Va bene, l’hanno fatto per una giusta causa, direte voi.
Va bene, rispondo io. Va bene.

In conclusione ho scoperto da poco (da quando sono di nuovo connesso) che Paul Miller, giornalista di The Verge ha effettuato il mio stesso “esperimento”. La differenza è che lui ha rinunciato a internet per un anno, convinto che internet lo stesse danneggiando come essere umano (ecco una motivazione che avrei potuto usare io all’inizio di questo articolo). A che conclusioni è arrivato? I primi mesi la disintossicazione dal web lo ha reso più cosciente di sé, più sereno, grazie anche alla scoperta di piccole gioie (una passeggiata, annusare i fiori, un buon libro). Gli ultimi mesi, al contrario ha sofferto terribilmente di solitudine e c’è mancato poco che non si stringesse un cappio intorno al collo («perché internet – ecco la rivelazione a cui è arrivato Paul Miller – è il posto dove ci sono le persone»). La triste vicenda è reperibile qui.

È vero? Non possiamo più fare a meno della rete? Internet ci rende persone migliori o peggiori? Più o meno stupidi? (e a questo proposito sarebbe interessante andare a rispolverare un articolo del Post scritto 4 anni prima e vedere se ci aveva preso). È colpa di internet o del modo in cui lo usiamo? Perché Facebook, per esempio, che sarebbe un ottimo mezzo per scambiarci “cultura” viene usato prevalentemente per esaltare il nostro ego tramite brevi e fugaci momenti di popolarità? Non era meglio organizzare una grande raccolta fondi mondiale destinata alla ricerca sulla sla invece di gettarsi dell’acqua gelata sul corpo?

Sono solo domande. Le ennesime. Forse non ci interessano davvero le risposte. Forse ci basta alzare le spalle e cinguettare il nostro sdegno. O forse non esistono risposte e anche se esistessero perché non andrebbero messe in discussione?
D’altronde, il mondo in cui viviamo, mai nella sua storia era andato così veloce. Forse è solo una questione di adattamento: trovare la nostra di velocità. O forse è solo il nostro istinto, vecchio milioni di anni, che ci porta a criticare il presente, a guardare con nostalgia al passato e sperare in un futuro diverso. Che somigli al passato piuttosto che al presente.
Che paradosso.
Però è vero che internet ci toglie tempo. Ci distrae, ci rende più pigri, e forse più presuntuosi e con una percezione di noi che non corrisponde alla realtà. Che banalità, vero? Ce lo dirà la storia. Ma se evoluzione significa un mondo sempre connesso, accessibile a tutti, fatto di realtà aumentate, Google Glass, chat, comodità a discapito di pezzi di volta in volta più grandi di vita reale, di odori, di suoni, di immagini, di strette di mano, di luoghi, eccetera, allora… Allora, per il progresso, non saremmo costretti a pagare un prezzo troppo alto?

Post scrittum: Grazie a internet sono tornato ad andare di corpo con regolarità e il mio Ipad fa cose magnifiche.

-Francesco Aquino-

Host

Nata nel 1994 a Torino la Scuola Holden è una scuola di Scrittura e Storytelling dove si insegna a produrre oggetti di narrazione per il cinema, il teatro, il fumetto, il web e tutti i campi in cui si può sviluppare la narrazione. Tra i fondatori della scuola Alessandro Baricco, attuale preside.