Sua Maestà, e altre tracce fantasma

Puntate precedenti: Le 250 migliori canzoni dei Beatles (#254-235)(#234-225)(#224-215)(#214-201)(#200-181)(#180-166) (#165-156)
La playlist su Spotify.

Cinquant’anni fa i Beatles erano già abbastanza convinti di essere sciolti, anche se il pubblico non lo sapeva (ma sospettava). Cinquant’anni dopo continua la nostra carrellata con dieci pezzi di metà classifica abbastanza brevi che non potrebbero essere più diversi tra loro. C’è il manifesto del rock’n’roll e il canto del cigno del foxtrot; la prima traccia fantasma della storia della musica, e quello che poteva essere il primo vagito del funky (sommerso in una canzone sull’amore dei macachi). C’è la canzone che John Lennon odiava di più, tra quelle che aveva scritto John Lennon, ma anche una delle sue canzoni preferite (l’aveva scritta Smokey Robinson). C’è un passaggio dal maggiore al minore che avrebbe intrigato Sigmund Freud, e tante altre illuminazioni improvvise.

 

155. Rock and Roll Music (Chuck Berry; incisa in Beatles For Sale, 1964).

Dev’essere rock and roll, se vuoi ballarlo con me. Se Little Richard è il dio del r’n’r, Chuck Berry è il profeta; e come spesso capita ai profeti, ha più parole del necessario. Non ho veramente voglia di controllare, ma sospetto che il testo di una canzone media di Chuck Berry contenga quattro volte il numero di parole di una canzone media di Lennon e McCartney. Questo spiegherebbe in parte come mai i Beatles in tre dischi non avessero ancora inciso un suo pezzo: chi vuoi che si ricordasse tutto il testo a memoria? (Però Johnny B. Goode dal vivo la suonavano, e anche Memphis Carol). Per di più sono testi complicati, perché l’ex barbiere di Memphis aveva una passione per gli incastri di parole ricercate e per esempio in Rock and Roll fa rimare “jamboree” con “jubilee” (ma anche “modern jazz” con “too darn fast”). Più in generale: i Beatles cercano nel rock’n’roll l’energia pura, l’urlo primordiale, qualcosa che è molto più facile ritrovare in Little Richard o persino in Larry Williams. Chuck Berry è tutta un’altra idea di rock and roll, meno lirica e più narrativa. Dopodiché è pur sempre r’n’r, il meglio che puoi registrare in mancanza di meglio, e così il 18 ottobre del 1964, durante una sessione fiume di dieci ore, dedicarono una manciata di minuti a Rock and Roll Music. Lennon la canta alla Lennon, cioè senza risparmio di corde vocali: ed è l’unica sostanziale differenza tra la versione beatle e quella originale. Al piano c’è un personaggio misterioso: nelle note del disco Derek Taylor sosteneva che fosse suonato a sei mani da John, Paul e George Martin, un’idea divertente che nella realtà avrebbe portato a un risultato mostruoso (se non è un modo garbato per suggerire che Martin abbia sovrainciso la traccia). Secondo Geoff Emerick era Paul McCartney, mentre George suonava il basso. È triste dover diffidare di Emerick, ma è anche difficile pensare che Paul nel 1964 si trovasse già tanto a suo agio con un pianoforte.

 

154. Honey Pie (Lennon/McCartney, The Beatles, 1968).

“I like this hot kind of music…” I Beatles sono il Titanic, il Disco Bianco è l’iceberg, Paul è il cantante dell’orchestrina. È come se alla fine di una festa non riuscita, nello scazzo generale, me lo vedessi arrivare bello lucido nella sua paglietta anni Dieci tirata fuori dall’armadio dei travestimenti e pronto a intrattenere un pubblico che non gli ha chiesto niente. O di sicuro non gli ha chiesto Honey Pie. Non vien voglia di afferrare con due mani quella paglietta e sfondargliela sulla testa, non vedi che stiamo per affogare, ti sembra il momento? Sei un Beatle, non un pagliaccio. O credevi che le due cose potessero stare assieme? maledizione, no.

Vedi come almeno per me è impossibile ascoltare le canzoni dei Beatles come se fossero semplicemente canzoni e non sequenze di una storia che procede verso la tragedia. Honey Pie in sé alla fine non ha nulla che non vada. Può anche darsi che Paul scrivendola stesse intercettando un certo spirito dei tempi, quel gusto per il vintage che era nato un paio d’anni prima tra Portobello e Carnaby Street. Riflettendoci, tutto il concetto di Sgt Pepper, l’idea carnevalesca di travestirsi da genitori di sé stessi (in un mondo parallelo e colorato in cui non è mai scoppiata la guerra) era venuta a Paul nel 1967: lo stesso anno in cui la Nuova Hollywood faceva le prove generali, e le faceva tuffandosi nel vintage con Bonnie and Clyde. Insomma se calata in un contesto preciso, l’ossessione rétro di McCartney ha anche un senso commerciale: non era soltanto lui a guardare indietro, c’era c’era una nuova sensibilità per questo tipo di cose. C’era mercato per un’idea del passato ormai depurata dalla nostalgia, ridotta uno sfondo fantastico, depurata dal rimosso conflitto mondiale. Honey Pie potrebbe davvero quel tipo di canzone che negli anni Settanta sbucava da un film in costume con Paul Newman o Robert Redford, e se fosse così probabilmente l’ascolterei con piacere, ah ah, vecchio Paul, sei così avanti anche quando guardi indietro. Persino se l’avessero incisa gli stessi Beatles, ma magari in Sgt Pepper’s, al posto di When I’m 64 – non avrei nulla da eccepire, davvero, mi sta simpatica When I’m 64.

Ma il contesto è tutto. Quando provava When I’m 64 con la banda Paul stava ancora sperimentando, cercando di capire fino a che punto si poteva spingere. Con Honey Pie non sperimenta più, sta controllando il territorio. È come se stesse piantando una bandierina, una cosa puerile anche quando la fanno i generali: John fa la musica concreta? Io faccio foxtrot, toh. È l’annuncio della fine dei Beatles, che anche quando suonavano male suonavano come i Beatles, mentre in Honey Pie suonano… professionali. È il momento in cui la maschera diventa più importante del personaggio, il che forse consente a John di rilassarsi e incidere il suo migliore assolo di chitarra – per poi magari chiedersi: ma io voglio davvero diventare un turnista di Paul? Finché non ne troverà uno migliore? E senz’altro prima o poi lo avrebbe trovato.

 

153. Tell Me Why (Lennon/McCartney, A Hard Day’s Night, 1964).

“C’era bisogno di un’altra canzone, così l’ho scritta”. Perché piangi? Perché mi dici le bugie? A Hard Day’s Night è un giorno vissuto talmente di corsa che è diventato notte in un istante. La Beatlemania gira così veloce che non c’è letteralmente tempo di capire cosa si sta scrivendo – tanto alla fine funziona tutto. Tanta è la fretta che in Tell Me Why i Beatles a momenti si dimenticano del bridge, che arriva in coda dopo due strofe quando ormai non lo aspettava nessuno, come l’ultimo a salire su un treno in corsa. È una canzone arrabbiata? È una canzone frustrata ? Probabilmente sì, nelle intenzioni, ma Lennon non ha ancora capito come si comunichino rabbia e frustrazione: la progressione è una cavalcata persino più rapida del solito, John si mette in bocca frasi come “Tutto quello che posso fare è tenermi la testa e mugugnare” ma le canta sbarazzino come se stesse invitando una ragazza a ballare. È chiaro che non vuole essere né allegro né lamentoso – non stavolta almeno – è chiaro che sta cercando da qualche parte un colore che sulla sua tavolozza ancora non c’è: il colore della rabbia. Ma è anche abbastanza chiaro che stavolta non lo trova, e finisce per consegnare ai solchi l’ennesimo numero yeah-yeah, in cui i tormenti del fidanzato offeso (è qualcosa che ho fatto o che ho detto? dimmi cos’è e mi scuso subito!) hanno le stesse movenze ipercinetiche delle cerimonie del corteggiamento. Un brano che poteva benissimo finire sul disco più festaiolo dei Beach Boys senza che nessuno facesse caso alla sostanza rancorosa del testo – del resto chi li ascoltava i testi nel 1964? persino John non aveva ancora iniziato ad ascoltare sé stesso.

 

152. You Really Got a Hold On Me (Smokey Robinson, incisa in With the Beatles, 1964).

Tu hai veramente presa su di me. Quando la intona Lennon, a inizio 1969, durante una delle session filmate del progetto Get Back!, sono passati appena cinque anni – a noi che guardiamo sembrano venti. I Beatles hanno smesso da così tanto tempo di essere la boy-band che setaccia i dischi di Smokey Robinson alla ricerca di pezzi da copiare, che sembra incredibile che Harrison e McCartney si ricordino ancora di questa vecchia canzone, che si gettano con Lennon all’inseguimento dello spettro di un passato recente e remotissimo. Purtroppo la Apple Corps ha appena bloccato il video su Youtube, ma è un momento commovente – si vede dalle espressioni dei volti che You Really Got a Hold era stata importante per loro, forse in qualche misterioso modo che non sappiamo e a questo punto non sapremo mai. Da quel tumultuoso 1964 i Beatles si sono reinventati più e più volte, hanno cambiato faccia e strumenti e attraversato vittoriosi la psichedelia e il vaudeville. Ora sono veri musicisti, e anche compositori, e profeti: ma la gioia di cantare Smokey Robinson – senza copiarlo, per una volta, ma di riprenderlo e riuscire a farlo suonare più fresco dell’originale – quella l’hanno dovuta perdere per strada, quella non torna più. (Molti anni dopo George Harrison citerà di nuovo il titolo in Fab).

(Questo mi è riuscito un po’ corto? No, sono gli altri che stanno diventando troppo lunghi, finirò lo spazio così. Si può finire lo spazio sul Post? Non vorrei essere il primo che lo scopre. Finirà che i primi venti pezzi me li sbrigo in tre righe, vi immaginate? Questa è Yesterday, bella melodia, un tizio sostiene che è copiata da una romanza napoletana, lo stesso McCartney la notte si strugge ancora chiedendosi dov’era quando l’ha ascoltata, e se c’è un modo di tornarci. Ecc.).

 

(Seguono 4000 battute su un pezzo di 50 secondi):

151. Her Majesty (Lennon-McCartney, Abbey Road, 1969).

Sua Maesta è una davvero una bella ragazza, ma non ha poi molto da dire. Qualche mese fa, in occasione del Cinquantesimo Anniversario, è uscita la tanto attesa versione deluxe di Abbey Road (dove “deluxe” ormai è un modo di dire: dopo qualche giorno era già accessibile anche ai poveri mortali su Spotify). Finalmente abbiamo potuto ascoltare Her Majesty dov’era previsto che fosse fino a pochi minuti dal taglio finale, ovvero nel bel mezzo del Famoso Medley del Secondo Lato, tra i due numeri in assoluto più lennoniani del carosello: Mean Mr Mustard e Polythene Pam. Finalmente abbiamo potuto verificare un’antica intuizione, vale a dire che il vero merito acquisito da Paul McCartney con Her Majesty non era stato tanto nel comporla (probabilmente non ci aveva messo più di cinque minuti), ma nel tagliarla via di netto, zac! ottenendo con un’opera di pura sottrazione una delle svolte più intense di tutto il disco. Non ci si può impedire di pensare: ah, se soltanto Paul avesse imparato a censurarsi un po’ prima. Certo, eliminando l’unico scarso minuto mcartneyano nel blocco lennoniano si sacrificava una delle ultime illusioni di coesione, ma a quel punto, davvero, chi aveva più bisogno di illusioni?


Col taglio si sacrificava anche quell’abbozzo di un minuto scarso che Paul non aveva mai realmente desiderato trasformare in una canzone. È dal Disco Bianco che Paul sta esplorando l’estetica del non-finito: certe idee ha smesso di svilupparle, preferisce lasciarle a un livello embrionale, e magari al limite montarle assieme in composizioni patchwork: un trucco che quando funziona può contribuire al miracolo di A Day in the Life, ma quando non funziona (e Paul è il primo ad ammettere che non sempre funziona) può portare all’incisione di strani scarti, oggetti enigmatici come Wild Honey Pie Why Don’t We Do It in the Road. Canzoni bonsai, le chiama Alan W. Pollack: minuscole, autosufficienti e (aggiungo io) abbastanza inspiegabili: a cosa serve una canzone che dura meno di un minuto? (È buffo perché io faccio parte dell’unica generazione che avrebbe in effetti saputo dare una risposta a questa abbastanza assurda domanda: l’unica a trovare un senso pratico e circoscritto alle canzoni minuscole: erano quelle che si mettevano alla fine di un nastro per non sprecare nemmeno un minuto di vuoto. Esistevano dei veri e propri repertori, alcuni sono finiti anche on line). Ma bisogna ammettere che rispetto agli antecedenti del Disco Bianco, Her Majesty è davvero autocompiuta: probabilmente se avesse deciso di lavorarci Paul avrebbe potuto trasformarlo in un altro bozzetto in costume, ma la verità è che siamo abbastanza felici che non ne abbia avuto voglia, anzi, viene il sospetto che avrebbe fatto meglio a lasciare allo stadio larvale anche cose come Obladì o Silver Hammer. Come una foto rubata a una ragazza, uno sguardo che per puro caso funziona meglio di centinaia pose provate prima o dopo.

Dopo aver risalito ormai un centinaio di canzoni del repertorio beatle, credo che si tratti della prima volta in cui ci capita di parlare del Famoso Medley di Abbey Road, che è del resto il trionfo di questa tecnica compositiva “per incastro” che McCartney avrebbe conservato anche dopo la fine del suo sodalizio con Lennon. Ne parliamo per la prima volta incontrando l’unico pezzo che Paul decise di scartare – non abbastanza da eliminarlo dal disco, anzi: sappiamo che un tecnico del suono non sapendo dove buttarlo lo appiccicò al termine della bobina. Sappiamo che riascoltandola Paul rimase stupito dall’effetto straniante di questa sua canzoncina in solitario, che riemergeva all’improvviso dal silenzio ancora echeggiante dell’ultimo accordo di The End, e decise che avrebbe condiviso questa sorpresa con tutti noi, lasciando lo scarto alla fine del vinile e facendo di Her Majesty la prima ghost track della Storia. In un momento in cui lo scioglimento era ormai una prospettiva concreta, qualcosa che The End poteva in qualche modo rendere ufficiale, mentre Her Majesty sembra voler avere una funzione sdrammatizzante: niente paura, nulla finisce mai davvero, e io sono qui ancora con la mia chitarra e le mie canzoncine (dice Paul) (sì, ma è da solo mentre lo dice) (e poi all’improvviso anche lui scompare, un istante prima che la canzone finisca davvero, un silenzio ora davvero completo e spaventoso come quello che subentrava al fruscio, al termine di una cassetta).

 

150. I’ll Be Back (Lennon-McCartney, A Hard Day’s Night, 1964)

Try to realize it’s all within yourself, no-one else can make you change

“[Il bambino,] tenendo il filo a cui era attaccato, gettava invece con grande abilità il rocchetto oltre la cortina del suo lettino in modo da farlo sparire, pronunciando al tempo stesso il suo espressivo “o-o-o”; poi tirava nuovamente il rocchetto fuori dal letto, e salutava la sua ricomparsa con un allegro “da” [“qui”]. Questo era dunque il giuoco completo – sparizione e riapparizione – del quale era dato assistere di norma solo al primo atto, ripetuto instancabilmente come giuoco a sé stante,
anche se il piacere maggiore era legato indubbiamente al secondo atto…” (S. FREUD, Al di là del principio di piacere, 1920.

A proposito di finali inattesi: I’ll Be Back non doveva essere l’ultimo solco di A Hard Day’s Night. Lo spazio per un brano in più (il quattordicesimo) c’era, e considerati i dischi precedenti sappiamo più o meno che brano avrebbe dovuto essere: il classico finale col botto, quel tipo di cover breve ma travolgente che era anche il modo con cui i Quattro si congedavano nei set dal vivo. Nel primo disco era Twist and Shout, nel secondo Money: nel terzo il più probabile candidato sarebbe stato Long Tall Sally – sennonché a un certo punto si decise di farne a meno e non è neanche così importante capire chi davvero fece la proposta e chi l’accettò, insomma chi stava dirigendo i lavori nel 1964 (George Martin? Brian Epstein? John e Paul?): quel che importa è che si trattò di una ragione più estetica che commerciale. A Hard Day’s Night avrebbe contenuto solo materiale originale, 100% Lennon-McCartney: una prova di forza che però richiedeva un prezzo. Long Tall Sally fu destinata a un Extended Play, insieme ad altre pregevoli cover, e l’album più compatto e travolgente dei Beatles fino a quel momento uscì senza il botto finale, perché malgrado la loro provata versatilità, brani del genere non avevano ancora provato a scriverli (succederà pochi mesi dopo con I’m Down). Al termine di una cavalcata gloriosa, con poche e memorabili soste, i Quattro si congedano all’improvviso con un brano vagamente sinistro, dalla costruzione coraggiosa, per non dire già sperimentale (cinque strofe e tre bridge, di cui uno diverso dagli altri due, in posizione centrale: un riff ancora semplicissimo e persino più ipnotico di And I Love Her.

Da un punto di vista musicale I’ll Be Back è una riflessione ingenua e potente su uno dei misteri più universali della musica: la differenza tra accordo in minore e accordo in maggiore. Il modo in cui basta spostare un dito di pochi millimetri sulla tastiera, o sul manico di uno strumento a corda, per cambiare un intervallo di terza e portare la tristezza dove c’era l’allegria, o viceversa. Quel miracolo che succede tutti i giorni miliardi di volte senza che nessuno abbia più tempo o coraggio per esplorarlo, se non i bambini nella primissima fase di apprendistato, o i Beatles che anche dopo qualche milione di dischi venduti continuavano a giocare con gli strumenti come i bambini con l’interruttore: accendi la luce (accordo in maggiore): serenità, spegni la luce (accordo in minore), tristezza. A questo punto Freud comincerebbe a sospettare qualcosa (il bambino sta mettendo in scena una scomparsa? ha paura che un genitore non torni più? a proposito, ha ancora entrambi i genitori?) Neanche a farlo apposta, il brano comincia proprio mettendo in scena una sparizione e una ricomparsa, come il nipotino del Dottore: “if you break my heart I’ll go”, minore – “but I’ll be back again”, maggiore. Il seguito ovviamente annacqua la suggestione iniziale: non è più il bambino orfano a parlare, ma un giovane adulto restio a usare l’unica arma deterrente che gli è rimasta in quella schermaglia che è il rapporto di coppia: l’allontanamento volontario. Se continui a spezzarmi il cuore me ne vado (accordo in minore); sì vabbe’ tanto poi torno (accordo in maggiore). Non si fatica a immaginare la perplessità dell’interlocutrice: questo ragazzo non ha neanche bisogno di me per litigare, sta facendo tutto da solo. I want to go, but I hate to leave you

 

149. Please Mister Postman (Dobbin/Garrett/Gorman/Holland/Bateman, incisa in With the Beatles, 1963).

Per favore signor postino, controlli meglio, se c’è una lettera nel suo sacco per me. Certe canzoni hanno un picco, non saprei come definirlo meglio, un singolo momento che vale la pena di aspettare per tutta la canzone: in questo caso il momento in cui John non riesce più a tenersi e strattona il povero postino con una richiesta ridicola e struggente: “Deliver the letter! The sooner the better!” I Beatles del ’63 stanno alla posta cartacea come gli artisti trap del ’19 stanno a Instagram. È semplicemente il loro mondo, l’universo che si è creato spontaneamente tra loro e i fan, quelle ragazzine che sulle buste lasciavano messaggi anche ai postini, inviti a sbrigarsi a consegnare i loro messaggi ai Beatles (che ricambiavano scrivendo canzoni in forma epistolare). Magari basta questo a spiegare il perché una canzone allegra e tutto sommato abbastanza sciocchina della filiera Motown (Please Mr Postman ha quattro accordi e cinque autori ufficiali), ripresa dall’altra parte dell’oceano sembra diventata non dico una canzone seria, ma in un qualche modo credibile. Malgrado quel martellante e garrulo giro di Do che nessuno tranne Lennon avrebbe mai cercato di usare per comunicare un genuino senso di ansia, malgrado i coristi sembrano più divertiti che preoccupati – ma comunque simpatetici (la vera svolta di queste cover è la minore distanza tra voce solista e coro, quel nuovo senso di complicità che può trasformare un brano commerciale in un inno generazionale). Malgrado tutto perdere una lettera, all’inizio degli anni Sessanta, tra Liverpool e Amburgo, non è affatto uno scherzo: non c’è poi così tanto da riderci sopra. E insomma fermati postino, guardaci meglio, posso sembrarti un teenager piagnone ma ho diritto all’espressione delle mie emozioni – nonché a un servizio puntuale.

 

148. Flying (Lennon-McCartney-Harrison-Starkey, Magical Mystery Tour, 1967)

“Se ora guardate a sinistra, signori e signora, il panorama non è molto suggestivo. Ma se guardate a destra…”

Magical Mistery Tour è l’oggetto più sfuggente di tutta la discografia dei Quattro. Del resto dipende tutto da cosa vuoi e non vuoi vedere: da che parte ti volti. Se decidi di considerarlo un album (di solito la versione LP uscita negli USA per la Capital), non fatichi a considerarlo un capolavoro, non di molto inferiore al tanto decantato Sgt Pepper uscito pochi mesi prima. Se invece lo consideri un film, o almeno un prodotto audiovisivo, hai davanti l’unico vero fallimento artistico della loro carriera. Già. Ma d’altro canto i Beatles erano soprattutto musicisti, no? E anzi da questo punto di vista Magical Mystery Tour rappresenta il definitivo rigetto della cultura cinematografica, il loro modo (abbastanza involuto) di dire al pubblico e all’industria: grazie tante, ma questa cosa tutto sommato non ci interessa. La sbrighiamo per obbligo contrattuale, non ci perdiamo più tempo di tanto, se il risultato sembra il super8 di una gita aziendale tanto peggio, ci scusiamo coi telespettatori e andiamo avanti (McCartney davvero si scusò, evento rarissimo ai tempi). L’importante è la musica, e la musica non è buona? Sì, in molti casi è eccezionale, ma non è esattamente il caso di Flying, che è poco più di una jam session e ha il grosso torto di ricordare all’ascoltatore proprio l’origine cinematografica dell’operazione – davvero: puoi ascoltare The Fool On the Hill o persino Blue Jay Way senza mai farti venire in mente quel brutto tentativo di film, ma Flying ti riporta a terra (che ironia): cioè davvero questi credevano di poter improvvisare una cosa come una colonna sonora? Davvero pensavano che fosse il momento giusto per pubblicare una jam session e di attribuirla a tutti e quattro i componenti del quartetto? Più che un gesto generoso, sembra uno scarico di responsabilità. Un sintomo della stessa incoscienza che li aveva portati in giro per la campagna in pullman a girare un film senza una riga di sceneggiatura.

Anche nell’economia del film Flying rappresenta uno dei momenti più critici: nell’idea iniziale doveva rappresentare l’irruzione del sogno, del meraviglioso, sul “fianco destro” del pullman. Poteva essere il momento cruciale, il passaggio dall’estetica crepuscolare della campagna inglese a quella psichedelica che avrebbe cambiato il mondo in quell’ormai imminente anno 1968. Dai Kinks di Village Green ai Pink Floyd di The Piper at the Gates of Dawn in un battito di ciglia: chi se non i Beatles avrebbero potuto riuscirci? E invece i Beatles, che fino a quel momento si erano accreditati come artigiani del meraviglioso, decidono in questo caso di sprecarsi il meno possibile e usare per l’occasione un po’ di materiale di scarto di 2001 Odissea nello Spazio. Oddio: chi, avendone l’occasione, non impreziosirebbe i propri filmini delle vacanze con un po’ di fotogrammi inediti di Stanley Kubrick, peraltro coloratissimi? Il film però andò in onda sul primo canale della BBC, che in quel 26 dicembre 1967 trasmetteva in bianco e nero. Quello che videro davvero i telespettatori erano poco più che riprese fosche e inquietanti di una piana desertica. Nulla di così “inspiring”, e anche la musica non sembrava quella delle grandi occasioni. Flying dovrebbe esprimere la gioia del volo, ma per un altro caso di ironia involontaria, sceglie di affidarsi a una scala discendente, suonata sì sullo strumento più sofisticato in circolazione (il maledetto mellotron) ma montata sulla struttura meno fantasiosa a disposizione dei Quattro: il blues in dodici battute. Questo non rende Flying un brano così orribile dopotutto: alla fine nel suo piccolo fa davvero tutto quel che dovrebbe fare un breve brano all’interno di una colonna sonora: accarezza l’orecchio senza farsi troppo sentire, senza rubare l’attenzione all’occhio. Andrebbe tutto bene se il film in questione non fosse Magical Mystery Tour, e se l’occhio non stesse implorando pietà.

 

147. Why Don’t We Do It In the Road? (Lennon-McCartney, The Beatles, 1967).

“Perché non lo facciamo per strada? Nessuno ci starebbe a guardare”. Ok, Paul, che stai dicendo, aspetta. È chiaro che tutti si metterebbero a guardare, se lo facessimo per strada. Si fermerebbero a guardare anche se tu non fossi il grande McCartney, garantisco, dalle nostre parti in effetti per una serie di questioni sociologiche la gente a volte lo fa davvero per strada, blindandosi comunque dentro compatte autovetture, scegliendo non a caso le provinciali meno asfaltate e malgrado questo, malgrado questo, una volta su tre incappando in ciclisti guardoni: è più forte di loro. Ok Paul, sei stato in India, e un giorno sul tetto di un ashram hai visto due macachi copulare, rapidi e spudorati, chissà che epifania, bisogna dire che scene come in tv ai tempi il National Geographic non le trasmetteva. Va bene, ma ci sarà anche un motivo se i macachi sono rimasti sugli alberi mentre gli homo sapiens sapiens hanno inventato la fotografia e più tardi il cinema e ancora più tardi internet – sembra proprio che gli piaccia guardare. Ancor più che copulare, che ammettiamolo: dopo una certa età è uno sbattimento imbarazzante.

Noi in realtà ci stiamo spulciando, cioè non dovete necessariamente pensare subito a quella cosa, anche se in effetti siete umani.

Vabbe’, divago perché sono indietro con la scaletta, ma quello che all’inizio volevo dire è che Why Don’t We Do It In the Road è il brano più hippy che i Beatles abbiano mai scritto – posto che abbia ancora senso la parola “scrivere” per un un riff che è il grado zero del blues, e per un testo che consiste nell’invito a farlo per strada “tanto nessuno ci guarda”: due righe, una sciocchezza che poteva suonare meno ridicola giusto fino a quella metà del 1968, il tempo di tornare dall’India ancora un po’ intontiti, buttarsi nell’imprenditoria e arrivare a un passo dal fallimento. Quel senso di utopia a buon mercato che è la cosa che è invecchiata più in fretta degli anni Sessanta – cominciava a puzzare di muffa e ridicolo già verso dicembre, e si è tramandata ai giorni nostri soltanto attraverso le caricature che circolavano sin da allora (Frank Zappa aveva iniziato a prendere in giro Why Don’t We Do It prima ancora di ascoltarla). Per capire Why Don’t We Do It dobbiamo invece accettare che non è una caricatura: che Paul in quel minuto ci sta credendo davvero. Viviamo nell’attesa degli ultimi tempi, tra un po’ si farà sesso per strada senza che nessuno si fermi a guardare, e anche le canzoni non ci sarà più bisogno di arrangiarle così tanto, diventeranno raga semplicissimi e universali: da questo punto di vista Why Don’t We Do It è un altra di quelle canzoni che parlano di sé stesse, è una session breve di due musicisti (Paul e Ringo) che sanno cosa devono fare e lo fanno grezzo e rapido, senza vergogna, un coito tra macachi mentre George e John finivano di registrare qualcos’altro. Questo forse ci consente di capire la reazione di Lennon quando li scoprì, e invece di scrollare le spalle rimase offeso: ma come, combinate una sveltina del genere e non mi chiamate?

Tra tante promesse dei Beatles che il mondo ha deluso Why Don’t We Do It è una delle più involute e difficili da comprendere oggi – viviamo davvero in tempi diversi, oggi l’idea che nessuno si fermi a guardarti se decidi di fare sesso per strada è praticamente offensiva, ma come? neanche un like, una condivisione, un cuoricino? noi qui a sbatterci e voi neanche vi voltate? L’unico motivo per cui si ascolta ancora volentieri non ha niente a che vedere con la liberazione sessuale, ma con un tema assai più fondamentale per il destino dell’umanità: il funky. Ovvero, proprio quel giorno, mentre jammava a tempo perso con Paul sul fondamentale argomento del sesso dei macachi, Ringo se ne salta fuori con due o tre rullate cheevocano il fantasma di un funky ancora qualche stagione in là da venire (ascoltatele ad esempio da 1:25). Sicuramente più funky di quanto avesse mai suonato fino a quel momento. E va be’, direte voi, in fondo il funky col sesso ci sta abbastanza bene, no? Indubbiamente, ma il punto è che nella primavera del ’68 le rullate funky, quelle classiche che avete sentito campionate ovunque, ancora non esistevano. L’Amen break, per dirne una, è del 1969 (cos’è l’Amen break? È il ritmo che aveva il vostro cuore se andavate a ballare negli anni ’90). Quanto a Funky Drummer, e direi che siamo tutti d’accordo che il calendario astrale dell’Hip Hop si calcola a partire dal quinto minuto di Funky Drummer, addirittura è del 1970! Insomma, l’Hip Hop stava quasi per cominciare nel 1968, (anno 2 avanti James Brown) agli Abbey Road Studios, se solo qualcuno avesse fatto un po’ più di attenzione alle rullate di Ringo. Davvero, se per un attimo Paul avesse smesso di calpestare il pianoforte e urlare eufemismi sconci, i Beatles avrebbero potuto produrre il primo break campionabile al mondo. Ma non era, come dire, la priorità. La priorità era inneggiare al libero amore dei primati. Buon 1968.

 

146. It’s Only Love (Lennon-McCartney, Help!, 1965)

È vero che io e te dobbiamo combattere? Ogni notte? It’s Only Love ha il curioso primato di essere la canzone di John Lennon più detestata dallo stesso John Lennon. O meglio: diciamo che John Lennon – che nelle interviste degli anni ’70 amava sparare a zero sulle canzoni di Paul, sulle sue, sui Beatles in generale, e su chiunque si azzardasse a parlare male dei Beatles tranne lui – ha espresso più volte il suo odio per It’s Only Love che per qualsiasi altra canzone. Perché? Cos’ha di davvero odioso questo pezzo riempitivo ma tutt’altro che fastidioso, ricamato con una certa eleganza su una progressione armonica anche abbastanza originale (che tra l’altro è una specie di esperimento preparatorio di Being For the Benefit of Mr Kite)?

Sono il premio Nobel Eugenio Montale e non ho la minima idea del motivo per cui illustro questo pezzo, a me i Beatles probabilmente non piacevano.

Gli esegeti hanno notato che di solito l’odio di John si concentrava sui contenuti: un altro brano del 1965 che non sopportava è Run For Your Life, uno schizzo di maschilismo che comprensibilmente doveva imbarazzarlo. Anche le parole di It’s Only Love accennano vagamente a una crisi di coppia, ma quello che le rende più facilmente fastidiose è la loro banalità. Sono sempre le solite parole che stavano bene in ogni testo e che ormai a furia di rimontare hanno perso anche quel poco del loro significato originale. Insomma la mia ipotesi è che l’insofferenza di Lennon per It’s Only Love non scaturisca, per una volta, da una questione esistenziale, ma sia il segno di un’insoddisfazione estetica: John non ce la fa più a scrivere i soliti riempitivi dei dischi dei Beatles, i costumi di scena cominciano a stargli stretti. Non riesce più a prendersi sul serio mentre canta le solite rime: è un passo dall’autoparodia quando infila negli stessi versi tutte le vocali più aperte che riesce a trovare (I get HIGH when I see you go BY, MY oh MY! When you SIGH MY-MY inSIDE just FLIES, butterFLIES), quando pronunciando un “bright” si lascia scappare una R squillante, quasi italiana.

Le rime, spiegava il vecchio Montale, “sono più noiose delle Dame di San Vincenzo: battono alla porta e insistono. Respingerle è impossibile”. Il “poeta decente” ci prova a tenerle fuori, ma niente da fare: “le pinzochere ardono di zelo e prima o poi (rime e vecchiarde) bussano ancora: e sono sempre quelle”. Dopo tre anni di dischi, Lennon una canzone come It’s Only Love poteva scriverla ad occhi chiusi e forse a questo punto la cosa cominciava a diventare un problema: non riuscire a chiudere gli occhi senza essere disturbato dal bussare di una vecchia rima, un vecchio riff, un vecchio giro di accordi. Poi dice che uno si droga. Bob Dylan, quando ascoltò il primo verso “I get high when I see you go by“, ritenne di aver captato un verso in codice: “I get high“, finalmente i Beatles avevano cominciato a farsi seriamente. Ma probabilmente It’s Only Love parla di droga così come parla di rapporti di coppia, come di qualsiasi altra cosa: è solo un mucchio di frasi e Lennon cominciava a essere stanco di stare alla catena a montarle in base al suono. Non è che fosse in crisi di ispirazione, o meglio: era in quel tipo di crisi che ti porta a scrivere Ticket to Ride o Norwegian Wood. C’era ancora della musica fantastica da scoprire e riportare alla luce – ma quella vecchia non se ne andava: continuava a farsi viva, spettro inopportuno, coi suoi ritornelli chiocci, con le sue frasi fatte.

Leonardo Tondelli

Da Modena. Nel 1984 entra alla scuola media, non ne è più uscito. Da 15 anni scrive su uno dei più verbosi blog italiani, leonardo.blogspot.com. Ha scritto sull'Unità e su altri siti. Sul Post scrive di Dylan e di altri santi del calendario.