Solo uno stupratore, solo un fascista

«Questa mattina ho capito che era venuta l’ora di vendicare la morte di Pamela Mastropietro, e che andava vendicata colpendo i neri. Il mio è un messaggio. L’ho voluto lanciare perché bisogna contrastare l’eccessiva presenza di immigrati in Italia».

«Mi sono innamorato di due ragazze che avevano problemi di tossicodipendenza, ho cercato di salvarle ma loro si sono allontanate da me, colpa degli spacciatori (…). I pusher sono la rovina e sono sempre dei neri»

La storia, tutta insieme e tutta intera, sarebbe dunque questa: una donna, Pamela Mastropietro, è stata uccisa e il suo corpo è stato trovato qualche giorno fa smembrato e senza vestiti all’interno di due valigie abbandonate in un fosso. Il colpevole dell’omicidio (secondo Luca Traini) e cioè la persona che è stata arrestata in relazione all’omicidio di Mastropietro e che per ora è accusata di vilipendio e occultamento di cadavere è un uomo nigeriano già noto alle forze dell’ordine per attività di spaccio. Luca Traini, che è un estremista di destra, ha dunque deciso di uscire per la strada a sparare ai non-bianchi, per due motivi, ha detto: per vendicare Pamela e (cosa interessante, su cui non mi soffermerò) perché lui, innamorato di due ragazze con una storia simile a quella di Pamela, è stato abbandonato a causa degli uomini neri che fanno gli spacciatori.

La storia è stata raccontata in questo modo non solo da Traini, che ha fatto quello che ha fatto. Non solo da molti politici che sono vicinissimi o vicini ai movimenti di destra e di estrema destra, che non sono mai stati dei paladini delle libertà femminili. Ma è stata replicata e ripetuta senza mediazioni anche sui giornali. Tutti hanno infatti immediatamente stabilito un nesso causale tra l’attentato di Macerata e il corpo di Pamela Mastropietro. Tutti hanno assunto in modo acritico, senza nemmeno una parentesi, la versione di Traini e un linguaggio da Far West (“il pistolero”) assecondando il racconto che si sia trattato, in fondo, di un regolamento di conti. E che i due fatti – il “femminicidio” e l’attentato – siano dunque sullo stesso piano.

Eppure questa narrazione così volutamente confusa potrebbe essere smascherata facilmente. Il trucco è evidente e ormai vecchio, ma continua a funzionare: innanzitutto le persone colpite da Traini non sono solo uomini, c’è una donna, e il contesto politico a cui Traini fa riferimento in quelle stesse ore e giorni simulava il rogo e la decapitazione di un’altra donna «accusata di tradire la sua razza». E poi, come quasi tutte e quasi tutti ormai sappiamo, la violenza maschile contro le donne è strutturale: non ha colore, luogo, religione, contesti sociali. Ha solo un sesso. E arriva, nella maggior parte dei casi, da uomini vicini alle donne: da quegli uomini, cioè, che dicono di amarle.

Il risultato finale della narrazione dominante è invece la legittimazione dell’appropriazione razzista delle lotte contro la violenza sulle donne. E la costruzione di gerarchie sessuali tra maschi (bianchi e non bianchi) e tra donne (le “loro” e le “nostre”, che sono pure le uniche che meritano di essere “difese” a seconda però di chi le ha colpite: e non è un dettaglio). Il risultato finale è, infine, il riconoscimento della creazione di due fronti: da una parte quello dei barbari stupratori venuti da lontano che penetrano nel corpo della “nostra identità”, dall’altra il fronte dei maschi che appartengono a quel paradiso della libertà femminile che è l’Occidente. E se poi si parla di stupratori, interviene immediatamente una razzializzazione della violenza sessuale, come ha ben scritto qualche tempo fa Ida Domijanni: ci sono stupratori di serie A, neri o clandestini che anche dai giornali e dall’opinione pubblica ricevono un certo tipo di trattamento; e ci sono stupratori di serie B, gli indigeni, bianchi e italiani, che ne ricevono ben altra.

In tutta questa faccenda le donne scompaiono, ma dire che non c’entrano è sbagliato. È da Elena di Troia in poi che la guerra si gioca sul corpo delle donne, che il corpo delle donne funziona come campo di battaglia, come luogo di contesa di un presunto scontro di civiltà, come corpo a disposizione quando fa comodo, come oggetto inanimato nel migliore dei casi o come corpo morto nel peggiore (ma solo se bianco e violato da un corpo nero). Che funziona, soprattutto, come alibi e attenuante: perché in fondo un delitto d’onore (abrogato quando io già andavo all’asilo) è socialmente più accettabile di un attentato xenofobo.

È dunque necessario rendere esatto e definito ciò che non lo è: opporsi alla violenza contro le donne, sempre e quotidianamente, non è in contraddizione con la lotta contro l’appropriazione dei corpi delle donne da parte dei maschi italiani protettori della razza. Non esiste «un razzismo buono, il “nostro”, pronto a salvarci dal sessismo e dalla violenza degli “altri”». Uno stupro è uno stupro è uno stupro. Così come un fascista è un fascista è un fascista.

Giulia Siviero

Per ogni donna che lavora ci vorrebbe una moglie. Sono femminista e lavoro al Post. Su Twitter sono @glsiviero.