Il dito nell’occhio

Ho lavorato per quasi quattro anni con Rosy Bindi come suo vicepresidente all’epoca in cui ricopriva la posizione di presidente del partito, durante la segreteria Bersani. La conosco piuttosto bene, insomma, e, nonostante noi non si sia mai – ma proprio mai – d’accordo sul merito delle cose, l’ho sempre rispettata come persona integra e in buona fede. E mi è dispiaciuto ieri, anche sul piano umano, vederla commettere un errore così orribile e produrre una ferita così profonda nel tessuto di quelle istituzioni a cui ha sempre, e io sempre le ho creduto, dichiarato la sua fedeltà.

Sui social network rimbalza la questione del rapporto di causalità: “Se non volevate che la Bindi presentasse la sua lista degli ‘impresentabili’, bastava non candidare gli impresentabili”. Lo dicono in tanti: i grillini, il Fatto Quotidianoe i loro simpatizzanti festeggiano, avendo una buona occasione per mettere qualcuno sul rogo. Qualcun altro ricorda la questione del dito e della luna.

Il problema è che qui le due questioni, la presenza di candidati potenzialmente non idonei e la presentazione all’opinione pubblica di un lista di “impresentabili”, sono due cose che vanno completamente separate. Perché, se posso dirla così, non è previsto che per indicare la luna si debba mettere il dito nell’occhio di qualcuno.

Questo invece esattamente è successo. Che, qualsiasi cosa si voglia rimproverare a questi candidati – e ne parliamo tra poco – in nessun paese civile è previsto che un organo parlamentare, e quindi politico, a 48 (quarantotto) ore da una consultazione elettorale, entri a gamba tesa in questo modo nel processo decisionale dei cittadini. E’ molto semplice. E Bindi non ha nessuna giustificazione, lo dico insieme con delusione e con dispiacere, per non aver considerato il fatto di star utilizzando un ruolo istituzionale per produrre una così importante lacerazione nei processi democratici del nostro paese.

Avesse avuto anche tutte le ragioni del mondo, Bindi avrebbe dovuto agire in un tempo e in una modalità completamente diverse. Se di un intervento istituzionale si trattava, le finalità di protezione e di conservazione dell’istituzione dovevano poter consentire un rimedio, tanto per dirne una. Faccio il tifo per una politica pulita da sempre, e non ho certo cambiato idea in queste ore. Ma davvero non riesco a capire in quale modo questo intervento dell’Antimafia abbia contribuito a raggiungere l’obiettivo di costruire liste più pulite e un’ecologia della politica. E se dunque l’intervento non serviva a raggiungere questo scopo, se c’è stato, significa che doveva servire a qualcos’altro. Di qualsiasi cosa si tratti, non lo si può ignorare, lo si è fatto a spese dell’elettorato e della democrazia.

Perché il problema è poi che Bindi nemmeno aveva tutte le ragioni del mondo. Emilia Dalla Chiesa, un’altra mia cara amica con la quale il permanere di un affetto profondo e la visione delle cose della politica si sono recentemente particolarmente divaricati, ha scritto: “Seguo la conferenza della Bindi sulla lista degli impresentabili. Seguo con interesse perché vedo finalmente una politica che non aspetta la magistratura per fare pulizia al suo interno”. Una cosa per me ripugnante, cara Emilia, perché le liste di proscrizione della politica senza l’intervento della magistratura le potevamo consentire a Stalin o a qualche Caro Leader coreano, non possiamo certo farle passare in uno stato di diritto. Perché, per esempio, essere sottoposti a un giudizio in quanto intenzionalmente non si è richiesto di far valere la prescrizione ha un senso politico importante, molto diverso dal suo senso giudiziario.

Io vorrei che il mio partito presentasse sempre candidati degni di rappresentare i loro concittadini e faccio la mia battaglia da anni per questo. Vado in giro per l’Italia ad appoggiarli, come ho fatto ieri per esempio a San Vito dei Normanni, vicino Brindisi, dove c’è un servitore dello Stato,Domenico Conte, un poliziotto, che sta lavorando per diventare sindaco della propria città.

Preferisco, come sa chi lavora con me, correre il rischio dell’isolamento piuttosto che associarmi a persone i cui, non dico criteri morali, ma anche semplicemente gli stili operativi mi sembrano dispotici o clientelari. Ma so bene che la battaglia si fa politicamente, almeno fino a quando non intervenga la magistratura a stabilire, con tutte le garanzie del caso, l’incandidabilità di qualcuno. Si lavora per sostenere candidati per bene e si prova a costruire esempi di buona politica che siano vincenti sul piano del consenso. Questa è la strada, non ce n’è un’altra.

Se anche osservatori non schierati come Massimo Gramellini scrivono senza parafrasi che qui si è semplicemente in presenza di un regolamento di conti interno, vuol dire che la questione è stata gestita in modo grossolano e crasso. Quello che veramente dispiace è che lo si sia fatto trascinando nella melma una serie di cose di cui si dovrebbe rispettare la sacralità: la democrazia, il processo elettorale, il contrasto alle mafie, il garantismo non peloso e anche la fatica quotidiana di costruire una politica migliore.

Il tutto, piegato a fini di parte, diventa un po’ più piccolo, più meschino e decisamente meno credibile.

Ivan Scalfarotto

Deputato di Italia Viva e sottosegretario agli Esteri. È stato sottosegretario alle riforme costituzionali e i rapporti con il Parlamento e successivamente al commercio internazionale. Ha fondato Parks, associazione tra imprese per il Diversity Management.