Riforma Alfano: vademecum fazioso

A nessuno piace perdere potere e privilegi, ecco perché la magistratura e i suoi difensori hanno consolidato un sistema che non somiglia a quello di nessun altro paese democratico. Ogni tentativo legislativo è stato regolarmente cassato dalla Corte Costituzionale: l’impianto del nuovo Codice elaborato per decenni fu spazzato in tre minuti da una sentenza della Consulta datata giugno 1992; il processo, unico luogo in cui una testimonianza doveva trasformarsi in prova, fu ridotto a una vidimazione notarile delle carte che l’accusa aveva raccolto durante le indagini. Per rimettere le cose a posto, nel 1997, fu riformato l’articolo 513 ´(«giusto processo») ma la Corte Costituzionale spazzò via tutto l’anno successivo; per reintrodurre la riforma fu necessario modificare l’articolo 111 della Costituzione, ma per questo servirono altri anni, nonché l’accordo di tutto l’arco parlamentare. Ora, dopo altri tentativi frustrati, ci si riprova avendo capito la lezione: ecco perché i contenuti della riforma Alfano riprendono anche degli spunti contenuti nella «bozza Boato» e in altri tentativi dei governi Prodi e Berlusconi. Sarà inevitabile un lungo percorso parlamentare composto da quattro «letture» più un probabile referendum confermativo. Non sarà facile. Ma vediamo la riforma punto per punto.

1) Separazione delle carriere tra giudici e pm. Due carriere, due concorsi, due scuole, due professionalità: tutto per introdurre quella parità giuridica in teoria già introdotta nel 1989 e ribadita vanamente nel 2001. Oggi il pm è quello che prende sottobraccio il collega giudice (ruoli intercambiabili) mentre l’avvocato è quello che chiede udienza col cappello in mano. L’articolo 111 della Carta dice già questo: «Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale». Ma non basta. Va detto che non ci sarebbe nessun controllo da parte del potere esecutivo o legislativo (come accade per esempio in Francia o in Germania) e che lo stesso reclutamento resterebbe comunque sottratto a qualsiasi intervento politico. In Italia, altro aspetto unico nel suo genere, si diventa magistrati appena laureati e senza alcuna esperienza professionale che non sia un semplice tirocinio di dodici mesi. Non ci sono corsi di preparazione che precedano l’ingresso nel corpo, come accade altrove: e non ci sono neppure dopo. In pratica, per decidere della libertà altrui, basta vincere un concorso.

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Filippo Facci

Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia. È autore di Di Pietro, La storia vera