Nanette, un anno dopo

Poco più di un anno fa è uscito su Netflix uno spettacolo di stand up comedy che ha fatto molto discutere. Si intitola Nanette ed è di Hannah Gadsby. Molti lo ricorderanno. Hannah Gadsby è una comica tasmana che nessuno fuori dal circuito australiano fino a quel momento conosceva. Eppure pochi giorni dopo l’uscita di Nanette comparvero articoli ovunque, dai social network ai grandi quotidiani, che sostenevano che da quel momento in poi la comicità non sarebbe stata più la stessa. Sembrava che qualcosa di rivoluzionario avesse investito una delle forme di spettacolo più in crescita degli ultimi anni: lo scoperchiamento di un vaso di Pandora che aspettava chissà da quanto tempo di trovare qualcuno munito di sufficiente coraggio.

La stand up comedy è uno dei generi di spettacolo che Netflix ha spinto di più, e con grande successo. Figura chiave di questo fenomeno è Lisa Nishimura, la vicepresidente responsabile della produzione di documentari e comicità. Se ci sono due prodotti audiovisivi che in genere abbiamo preso a consumare in quantità straordinariamente maggiore rispetto a prima non sono le serie, che già da anni crescevano anche al di fuori delle piattaforme di streaming, ma proprio documentari (vedi Wild Wild County) e stand up comedy. Recentemente anche tre italiani, cioè Saverio Raimondo, Edoardo Ferrario e Francesco De Carlo, si sono aggiunti alla montagna di tizi con un microfono in mano davanti a un pubblico ridente disponibili agli abbonati.

Hannah Gadsby è omosessuale, ha iniziato a fare spettacoli comici più di dieci anni fa, è stata vittima di violenza diverse volte nella vita e ha problemi di relazione nello spettro dell’autismo. Nanette è uno spettacolo normale per 17 minuti. Per 17 minuti ci sono un po’ di battute su di sé, un po’ di battute sulla Tasmania, sulle lesbiche, e parecchie battute sugli altri: sugli scemi, sui bifolchi omofobi e il loro modo di relazionarsi. Poi Gadsby smette di fare battute – le fa, ma sono sempre più un corollario – e comincia a raccontare.

Hannah Gadsby (Emma McIntyre/Getty Images for Netflix)

Hannah racconta che fa la comica da tempo ma che ha capito che non vuole più fare comicità autoironica. Se la comicità autoironica la fanno le persone ai margini, dice, “Non è umiltà: è umiliazione”. E chiude l’argomento così: “E se questo significa che la mia carriera nella comicità è finita, pazienza”. Cominciano a scrosciare applausi sempre più fragorosi, mentre lo spettacolo alterna battute sugli altri (chi non la capisce, chi offende, i maschi bianchi etero) a momenti di teoria del comico.

Sostiene Gadsby che la comicità sia una costruzione di tensione ad arte che poi la chiusa comica disinnesca. Per lei è come un mantice che si riempie di tensione e si svuota con il sollievo e la risata. Sostiene che da quando era piccola è sempre stata una fonte di tensione, e negli anni ha imparato a gestire questa tensione a proprio vantaggio. Ma, dice, ma non vuole più vivere questa ipocrisia. L’ipocrisia è quella che spiega poco dopo: le chiuse comiche hanno bisogno di tensione, e la tensione si nutre di traumi; usare i traumi personali per costruire questa dinamica è crudele nei confronti di chi li ha subiti e consolatorio per il pubblico. A questo punto Hannah Gadsby racconta la difficoltà del proprio coming out nella zona più reazionaria della Tasmania, con tutto l’odio introiettato conseguente. Poi passa alla storia dell’arte, che descrive come spazio del sopruso ai danni delle donne, e infine arriva al finale.

Il finale dello spettacolo è dedicato a un’aggressione violenta di cui Gadsby è stata vittima. Viene raccontata senza battute, rivendicando l’importanza di non sciogliere la tensione di una storia così dolorosa, e sostenendo poi che ridere dei traumi non è curativo, non fa che diffondere l’odio e sollevare gli spettatori dall’obbligo di occuparsi delle storie delle persone e del dolore che contengono. Lo spettacolo finisce qui, con un accorato appello ai legami affettivi e un video di Gadsby a casa sua che gioca con i suoi cani, due stupendi lagotti romagnoli (Douglas e Jasper).

In questi anni in cui la cultura identitaria è sempre più protagonista del dibattito culturale, soprattutto nel mondo anglosassone, è difficile porre degli argini a certe istanze. Capiamoci subito. Ognuno ha quelle che preferisce e le esprime come meglio crede, ma non sono tutte ugualmente sostanziali, non sono indipendenti dal contesto, non sono sempre necessariamente condivisibili, né vengono in automatico prima di altre funzioni del linguaggio o dell’arte. Nell’estate del 2018 la situazione era complessa, si viveva l’onda lunga del caso Weinstein. Nanette divenne non solo il testimone più in vista di una tendenza già esistente, ma forse assunse il ruolo di spartiacque simbolico. Mettersi di traverso allora avrebbe scatenato delle diatribe più che dei ragionamenti. Sono passati quasi tredici mesi. Oggi due cose forse possiamo dirle.

Per prima cosa leviamo di torno il tema della coerenza. Hannah Gadsby un mese dopo lo spettacolo ha dichiarato che tra stupida e ipocrita avrebbe preferito risultare ipocrita, e che quindi non avrebbe abbandonato la comicità dopo un successo così clamoroso. Ha portato in giro Nanette per gli Stati Uniti ancora un po’, e ha promesso di continuare a fare comicità (il nuovo spettacolo, Douglas, parla del suo autismo). La cosa da chiedersi è se Nanette sia effettivamente comicità. Se ne è discusso molto a suo tempo.

Nanette è comicità prima di tutto come contesto e collocamento: è uno spettacolo di stand up di un’artista che ha sempre fatto quello, e lo è anche come proposta su Netflix, nel senso della categoria. Quindi per quanto attiene a chi ci si avvicina, sì, è stand up comedy (anche se la cosa ultimamente è diventata più complicata, e ci torniamo dopo). Entrando nello specifico, non esiste un meccanismo comico nello spettacolo che sia così notevole e meriti i premi che invece Nanette ha vinto. Le battute ci sono, Gadsby le porta con uno stile confidenziale un po’ meccanico ma efficace. Può risultare più o meno divertente, ma non è quello il punto.

Resta il fatto che quello per cui lo spettacolo ha fatto discutere tutti e guadagnato stima ovunque è la parte anticomica. La tesi di Gadsby è, in sintesi, che la comicità sia strutturalmente spietata e consolatoria. Lo schema che Nanette si ripropone di abbattere è: trauma, racconto del trauma che trasferisce il peso sul pubblico, chiusa comica che libera dal fardello, risate, sollievo. Gadsby nel punto cruciale dello spettacolo dice basta, qui non c’è la chiusa comica, non ve lo tolgo questo carico, ve lo tenete. È una formulazione sicuramente efficace.

Ora, il comico non è un genere: il comico è un registro che si declina in moltissime forme, e lo facciamo in Occidente da oltre 2500 anni. Comica è qualsiasi rappresentazione di realtà o fantasia che faccia ridere. In genere alla base di questa reazione c’è uno spostamento: rispetto a ciò che ci aspettiamo c’è un elemento inatteso o fuori posto che ci diverte. A volte si tratta di qualcosa di fisico (le persone eleganti in genere non scivolano sulle bucce di banana né si tirano torte in faccia); altre volte è l’interpretazione di qualcosa che dà un aspetto esilarante ad angoli della nostra esistenza che non pensavamo contenessero della comicità (un uomo affetto da demenza senile ripete ossessivamente uno spot della Toyota).

Ai tempi dell’antica Grecia le commedie di Aristofane facevano battute sulla guerra. La guerra nel V secolo a.C. produceva vedove e orfani, dolore, violenza e sofferenze immani. Chi ci scriveva sopra una commedia non doveva creare nessuna tensione ad arte: il pubblico ateniese la portava già sulla pelle, sapeva benissimo cosa fosse la guerra. L’idea che le donne rifiutandosi di fare sesso con i mariti interrompessero il conflitto tra Sparta e Atene era satira pura. Lisistrata, dove si racconta questo stratagemma, faceva ridere dando una luce nuova alla società, al sesso e alla morte.

Nel corso di questi millenni, secoli e decenni si sono fatte battute su qualsiasi argomento, e in particolare su quelli terribili. Quando nella serie inglese Fawlty Towers l’albergatore interpretato da John Cleese (quello dei Monty Python) scherza sull’imbarazzo del servire clienti tedeschi con la frase “Don’t mention the war!”, sta scherzando su alcuni milioni di morti. Meglio: sta facendo una battuta che comprende alcuni milioni di morti, ma che ha come obiettivo la convivenza tra popoli che un tempo si sono ammazzati.

Quando Roberto Benigni con spirito anarcoide cerca di palpare Raffaella Carrà a Fantastico, sta smontando la rappresentazione conformista della prima serata di RaiUno, i suoi canoni, la sua compostezza affettata. Quando Jerry Seinfeld descrive i vari tipi di saluto nazista, sta ridendo della famosa “banalità del male”. Sarah Silverman che scherza sullo stupro non sta servendo del sollievo sul vassoio a nessuno.

Portare il pubblico a ridere di qualcosa di tremendo è il punto centrale della questione. Bisogna ovviamente essere capaci di farlo bene, e più si maneggia l’orrore più è difficile. Mostrare al proprio pubblico gli orrori del mondo semplicemente indicandoli non è così difficile, e in genere non è il compito di un comico. Il comico bravo riesce a portarti nel luogo meno confortevole che esista, e farti ridere. Sa farti vedere da un altro punto di vista anche quegli abissi che finora ti erano sembrati talmente assoluti da sfuggire a qualsiasi elaborazione. E invece… Questo è Ricky Gervais che prende il pubblico per mano, lo porta nell’appartamento di Anne Frank e lo fa sganasciare.

Il comico monologhista è sempre stato una persona poco affidabile, sopra le righe, non perbene, divertente sì ma anche imbarazzante, incontrollabile, offensiva, al limite anche stronza. Nel nostro paese non c’è tanta tradizione in questo senso, ma Roberto Benigni e Beppe Grillo sono sempre stati quello. Arrivavano, dicevano cose di cui vergognarsi, offensive e divertenti, e se ne andavano in un tripudio di polemiche. Una persona che ha lavorato con Pippo Baudo mi ha raccontato che Baudo prima delle esibizioni ha sempre detto ai comici di non censurarsi, di fare il loro pezzo fino in fondo, anche se lui avesse cercato di interromperli o dissociarsi. Era ed è parte del gioco.

La proposta di comici attuale è piena di nuovi interpreti di qualsiasi identità. La serie Netflix The Comedy Lineup presenta comici esordienti o ancora non abbastanza grossi da meritare uno speciale individuale. Ciascuno sta sul palco di un locale gremito di gente per 15 minuti. Quasi tutti i comici si occupano dei propri gruppi identitari: etnici, di sesso, genere, orientamento. Le battute tendono a concentrarsi sugli altri: quelli che non capiscono, i razzisti, gli omofobi, quelli che offendono, quelli che sono diversi e lontani sia dal comico in persona che dal pubblico in sala e sul divano. La stand up comedy televisiva sta prendendo sempre più questa forma. È una forma anche efficace perché inebriante, con il vento in poppa della liberazione dei costumi, ma innocua perché riduce i rischi di controversie a zero. Nessuno si offende se una trans fa battute contro la transfobia. Nessuno si indigna, nessuno twitta, tutti si sentono parte di una famiglia che con un sorriso amaro lotta contro le ingiustizie.

Alla comicità identitaria si unisce il personalismo che è tipico dei nostri tempi, per cui sembra che le uniche questioni che ci preoccupano riguardino il nostro personale. Nel caso specifico abbiamo il personalismo del trauma: i comici raccontano il proprio dolore. Ora, questa di condividere qualcosa di spiacevole è un’arma tipica di tutti i comici. In genere però si tratta di lati spiacevoli del comico, non esperienze spiacevoli capitale al comico. La differenza è tutta lì. Sono aspetti bassi, triviali, di cui vergognarsi, che tutti noi nascondiamo dietro alla rispettabilità e al pudore, e che il comico riesce a risvegliare essendo sempre più spudorato, più tremendo di noi al nostro peggio.

Il comico in genere parla di sé proprio per umiliarsi, come se dovesse parlare al lato basso e marcio e imbarazzante di noi, sfilandoci le risate da sotto i piedi. Questo è il lato della comicità che spiace ad Hannah Gadsby: lei sostiene che le persone ai margini o con un trauma alle spalle non possano umiliarsi ancora di più. È una sua idea, ma non ha niente a che vedere con la comicità in assoluto, che è stata quasi sempre proprio una cosa da gente ai margini, né con i suoi scopi, la sua storia millenaria, la sua capacità di affrontare anche le peggiori tragedie della vita, non importa quanto gravi. Anzi, più sono gravi, più è sempre stato stimolante e sensato riuscire a riderci intorno. Condividere il proprio dolore invece fa il contrario: stimola nel pubblico la compassione, e usa gli strumenti dello spettacolo, con il ruolo intrinsecamente autoritario di chi ha una platea in ascolto davanti a sé, per suscitare un’alternanza lievemente inquietante di indignazione e commozione.

Se una persona su un palco ci invita a dimostrare empatia e solidarietà nei confronti di un proprio dolore, ci sta invitando a esporre in pubblico la nostra bontà, la nostra rispettabilità sociale, il lato più lodevole di noi stessi. È un’offerta troppo allettante per rifiutare, e allo stesso tempo se anche volessimo non possiamo farlo, pena la riprovazione collettiva. Stiamo parlando, in poche parole, di comicità ricattatoria. Dire che non mi piace lo spettacolo di Hannah Gadsby dà banalmente l’impressione che non me ne freghi niente della violenza che ha subito lei, e di conseguenza quella di tutte le donne. Questo è un meccanismo che un bravo artista, un artista onesto, dovrebbe sempre evitare. Simili ad Hannah Gadsby ce ne sono tanti altri. Tig Notaro e la sua mastectomia, Luisa Omielan e la morte della madre trascurata dal sistema sanitario britannico, Ahir Shah al capezzale della nonna indiana deportata, Hasan Minaj e il razzismo.

Dopo una breve carriera di successo come inviato di John Stewart, Hasan Minaj ora ha un suo spettacolo (Patriot Act, in Italia Patriota indesiderato) in cui alterna preoccupate sintesi di gravi problemi sociali a battute simpatiche. È bello, di successo, indiano californiano, pieno di entusiasmo e di bontà. Non fa mai ridere, ma se non mi faccio coinvolgere dalla sua apprensione forse sono un menefreghista. In molti casi questi spettacoli danno l’impressione di quei TED Talk che raccontano di un trauma personale, ma con protagonisti più spiritosi e più abituati al palco. Alcuni chiamano questo nuovo genere di monologo brillante drammatico, che impazza per esempio al Fringe Festival di Edimburgo, “sad comedy”.

Humanity, l’ultimo spettacolo di Ricky Gervais uscito su Netflix, è dedicato per metà a smontare i nuovi percorsi mentali di chi si indigna quando la comicità affronta temi delicati. Spiega la differenza tra l’argomento della battuta e l’obiettivo della battuta; analizza l’idea dell’indignazione del pubblico, soprattutto di quello dei social network. Oltre a farlo in modo magistrale ed esilarante, Gervais dimostra chiaramente che dal suo punto di vista il problema esiste. Una serie di comici vecchia scuola sta facendo di tutto per continuare ad avere questo ruolo di cattivo matto che si sporca le mani con il peggio, mentre tutto intorno sembra che il loro stile sia giudicato troppo controverso. Come lui ci sono Sarah Silverman, ovviamente Louis C.K. (parlandone da vivo), Bill Burr, Norm Macdonald, Amy Schumer, Dave Chappelle, lo spirito di Joan Rivers e diversi altri.

Hannah Gadsby (Getty Images)

L’idea che affrontare e raccontare le cose nel registro comico sia una pratica da poco, banale e consolatoria, è un classico stereotipo della cultura moralista. La commedia non è mai piaciuta ai regimi di alcun tipo né alle religioni: l’idea che il mondo si possa vedere da un altro punto di vista, con un altro taglio, unendo due punti distanti per produrre una nuova sintesi, è considerata esecrabile.

Nell’elenco dei più grandi autori di letteratura, cinema, tv, teatro che si stilano di tanto in tanto in occasione di qualche ricorrenza, è raro che ci siano comici di qualsiasi livello. Giusto un Billy Wilder qua e là, almeno lui. Non a caso Il Nome della Rosa di Umberto Eco ipotizza che in un monastero ci sia l’ultima copia rimasta di un fantomatico libro proibito di Aristotele dedicato – Aiuto! – alla commedia. Il comico è considerato offensivo da chi trova un senso nell’offendersi e nell’indignarsi, ma è proprio la pratica dell’inammissibile che sta alla base della comicità. Non è ammissibile che lo schiavo trami per far sposare quei due se la famiglia non vuole (Plauto). Non è ammissibile rivolgersi al filosofo Socrate per liberarsi dei creditori (Aristofane). Non si prendono a calci i neonati (Jim Jeffries). Non puoi rivendicare la tua voglia di menare tua moglie (Bill Burr). Non si può sostenere che l’AIDS sia stupendo (Sarah Silverman). Non puoi dire che la vagina puzza (Amy Schumer).

Alla fine di Humanity, Gervais racconta una cosa spiacevole che gli è successa: la morte della madre. Lo fa per mostrare come la sua famiglia abbia preso per il culo tutto e tutti sempre, fino all’ultimo, anche ai funerali, come chiave di lettura del mondo e strategia di sopravvivenza. Questo articolo, che ho pensato di scrivere un anno fa quando tutti sostenevano che Nanette avesse finalmente ribaltato la comicità come un calzino ripulendola dalle sue ipocrisie, nasce esattamente da questo: dal personale desiderio di difendere il mio diritto a ridere delle cose peggiori che la vita ci propone, e dalla passione per i giganti che lo fanno da secoli senza alcuna ipocrisia.

La comicità è una disciplina intellettuale nobilissima che abbiamo inventato per dare alle nostre esistenze una forma alternativa, immaginifica, fatta di coraggio, intelligenza e condivisione. È un antidoto al conformismo, alla paura, all’isolamento, al male di vivere. Ce n’è di bella e di terribile, ovviamente, ma questo vale per tutto. Salire su un palco e rovesciare in testa alle persone un trauma personale, con la presunzione che semplicemente così si diffondano sentimenti autentici, è un trucco che trasuda presunzione. Forse è in buona fede, sicuramente il dolore è autentico, ma resta uno stratagemma ricattatorio da predicatori. Non ridere non è mai stato un metodo efficace per diventare persone profonde, ma forse per sembrarlo. La comicità continua fortunatamente a essere un’altra cosa.

Matteo Bordone

Matteo Bordone è nato a Varese negli anni della crisi petrolifera. Vive a Milano con due gatti e molti ciclidi. Lavora da anni a Radio2 Rai e a volte in televisione. Scrive in alcuni posti, tra cui questo, di cultura popolare, tecnologia, videogiochi, musica e cinema.