Lucia nel Cielo coi Regali

13 dicembre – Santa Lucia, vergine e martire (283-304).
Sono un po’ emozionato: è la prima volta che mi capita di scrivere di una Santa nel momento in cui è trending topic su Twitter. D’altro canto voi non avete idea del baccano che è già iniziato a Correggio, o Montichiari, o Bussolengo; i negozi sono pieni persino in quest’anno difficile, e a scuola i bimbi friggono da stamattina. È la notte più lunga dell’anno.

Chi porta i regali in Alta Italia? Le aree di competenza di San “Babbo” Nicola (in rosso) e di Santa Lucia (in giallo) (Da prendere con le molle, anzi se avete notizie diverse segnalatemele).

Sì, lo so, la notte più lunga dell’anno è il 22. A Roma, almeno. A Milano. Già verso Lodi le cose cambiano. Ovviamente non è una questione di fuso orario. Non si sa neanche bene il perché, fatto sta che i bambini di Lodi (e Reggio nell’Emilia, e Bergamo, e Udine) stanotte aspettano i regali, quelli che a Milano o Roma sono attesi solo per il venticinque. Da noi vengono prima, e non li porta Babbo Natale, quel San Nicola secolarizzato (ma ha ancora il mantello rosso dei vescovi) che in realtà gratta gratta è il Dio Odino sotto mentite spoglie. No. A Brescia, a Piacenza, a Cremona, in una regione intermedia tra Emilia Veneto Lombardia e Trentino, la letterina si scrive a Santa Lucia, che te li porta il 13, la notte più lunga che ci sia.

La ragione per cui a Carpi, per dire, la notte più lunga è questa, mentre sull’altra sponda del Secchia il sole sorge regolare, non è chiara. Comunque sappiamo precisamente quando si aprì questa frattura nello spaziotempo: nel 1582 Papa Gregorio XIII decise di rimettere mano al calendario di Giulio Cesare, che tutto sommato per millecinquecento anni si era difeso egregiamente, guadagnando però ogni anno undici minuti e 14 secondi rispetto alla rivoluzione della terra intorno al sole. Del resto, nemmeno lo stesso Cesare avrebbe potuto supporre che il suo calendario sarebbe rimasto in vigore per milleseicento anni. Ai tempi del Gregorio in questione ormai le stagioni stavano sballando: Pasqua da festa dei germogli rischiava di diventare sagra della mietitura, e in giro qualcuno cominciava a sussurrare che non esistessero più le mezze stagioni. Anche il solstizio d’inverno, la notte più lunga dell’anno, si era stabilmente assestata intorno al 13 dicembre, Santa Lucia.

Potrei inserire centinaia di immagini di giovani svedesi con candelieri in testa, ma non riesco a liberarmi da questa.

Considerate che sofferenza doveva essere mettere a letto i bambini in un’epoca senza orologi meccanici, in cui ci si leva e ci si corica col sole: in estate c’era tutto il tempo per uscire di casa e stancarsi, ma in inverno? Come convinci il bambino a stare buono per quattordici ore (in Scandinavia anche diciotto)? Gli si dice: buono, che sennò San Nicola / Santa Lucia / Gesù Bambino / i Re Magi /la Befana non ti portano niente. E quella notte almeno il monello sta quieto, se non dorme farà finta, perché Santa Lucia se la guardi scappa via. Non è un caso che sia Lucia che Nicola siano santi amatissimi in Svezia, un Paese luterano che in teoria con la venerazione dei Santi dovrebbe avere chiuso nel Cinquecento, ma i bambini non viene mica in casa ad addormentarteli Martin Lutero. In teoria la festa svedese ha antenati antichissimi: l’originale “Lussi” svedese sarebbe un demone che cavalca in cielo nella notte più lunga (una brutta copia di Odino, evidentemente); forse era la Lucy che Julian Lennon disegnava nel cielo coi diamanti? I suoi compagni di caccia si chiamano Lussiferda, che in alto germanico immagino voglia dire qualcosa come “seguaci di Lussi”, ma suona anche così simile al latino “Lucifer”(“portatore di luce”) da far pensare che la tradizione si sia presto sporcata con elementi d’importazione. La contaminazione non si è fermata lì: le ragazze biancovestite che sfilano con una pericolosa ghirlanda di sette candele cantano un popolarissimo inno svedese che in realtà è Santa Lucia, la barcarola ottocentesca di Cottrau, che Caruso ha reso famosa in tutto il mondo (qui c’è la versione di Elvis, in un italiano dignitoso). Loro ci hanno dato gli Abba, noi Cottrau, giudicate voi chi sia in credito con chi. Addirittura da Stoccolma ogni anno parte una Santa Lucia che va a presenziare alla processione di Siracusa: perché la Lucia cristiana è nata e morta laggiù, dove ovviamente è festeggiatissima con fastosi cortei, anche se la tradizione dei regali nella notte più lunga sotto il 45° parallelo è molto meno sentita. Cosa sappiamo di lei? Niente, come al solito.

Quegli occhi li ho già visti

Per esempio, non è vero che le abbiano strappato gli occhi. O perlomeno non risulta dalle fonti più antiche, quegli Acta sanctorum che come abbiamo visto, quando c’è da scuoiare o squartare o abbrustolire una vergine non si tirano mai indietro: Lucia per esempio viene sgozzata (ma non muore finché non le portano la Comunione). Però anche negli atti più antichi di occhi strappati non si parla. Il tradizionale vassoio coi globi oculari in bella vista, una delle cose più splatter che possiate vedere in una chiesa cattolica, arriva nell’iconografia più tardi, con un sapore già barocco: indica che Lucia è la patrona degli occhi, e come tale carissima a tutti gli scrittori del medioevo che appena perdevano due gradi erano praticamente fottuti. (Non a caso Dante le concede un cameo in tutte e tre le cantiche: è lei che dà la scossa a Beatrice, ehi, guarda che il tuo ex, lì, il poeta, si sta perdendo in una selva oscura, insomma, fa’ qualcosa). L’unica congettura è che Lucia si sia conquistata il patronato, e la posizione fondamentale nel calendario pre-gregoriano, per via del nome, che appunto la collega alla luce. Quanto alla sua leggenda personale, non parla né di luci né di lunghe notti: però è interessantissima, e se avete pazienza ve la racconto. Tanto la notte è lunga, no?

Lucia è una ragazzina con un sogno: diventare Santa come la Santa più famosa dei suoi tempi, che è Agata di Catania, martirizzata nel secolo precedente. Per convincere la madre Euticia a portarla sulla tomba del suo idolo, le racconta che Agata sarà senz’altro in grado di guarirla da quelle perdite che in un millennio senza assorbenti dovevano risultare ben più che fastidiose. Quando finalmente la madre la esaudisce, Lucia inginocchiandosi davanti alla tomba cade in deliquio e vede Agata tra le schiere degli angeli coi diamanti (“in medio angelorum gemnis ornata”) che bonaria la rimprovera: sorella, perché chiedi a me di fare quello che puoi fare tu sola? Insomma, sii te stessa, credi nei tuoi sogni ed essi si avvereranno eccetera. Quando si sveglia, Euticia è guarita e la decisione è presa: Lucia sarà Santa. C’è un problema. Lucia è un buon partito, con un fidanzato che non vede l’ora di mettere le mani sul cospicuo patrimonio amministrato dalla madre. Euticia però viene convinta dalla figlia a dare tutto in beneficenza. Qui la leggenda mostra la sua superiorità su altre dello stesso genere: si parla di soldi, raramente nelle fiabe questo avviene. Quando al fidanzato giunge notizia della munificenza di Lucia, va a chiedere spiegazioni a Euticia, che sibillina gli spiega: la tua futura sposa ha trovato un investimento che frutta di più di qualsiasi altro (“quod utiliorem possessionem sponsa sua invenisset”). Il tizio, essendo ovviamente pagano, non capisce: non conosce la parabola del tesoro nascosto nel campo. Si convince che Lucia ed Euticia stiano scalando chissà quale società per azioni, e addirittura le aiuta: quando si rende conto che quelle pazze stanno semplicemente foraggiando i poveri, le porta in tribunale con l’accusa di cristianesimo. (Siamo sotto Diocleziano, l’imperatore ammazzacristiani per eccellenza).

Di fronte al mostruoso inquisitore Pascasio, Lucia – neanche a dirlo – fa un figurone. Finché Pascasio non ha un’idea: qualunque cosa sia questo misterioso Spirito Santo che ti suggerisce tutte le risposte brillanti, adesso vedrai come faccio a cacciartelo via. Ti farò condurre al lupanare, dove ti violenteranno, e il tuo Spirito a quel punto ti lascerà (“Ego faciam te duci ad lupanar, ut ibi violationem accipias et spiritum sanctum perdas”). Ma Lucia non fa una piega, anzi. Qui la leggenda svela il suo nucleo più interessante: il concetto di intenzione. Nel mondo antico la purezza era una questione fisica, che in certi casi poteva essere recuperata mediante abluzioni rituali. L’impurità derivante da un rapporto sessuale era un fatto oggettivo, che tu acconsentissi al rapporto o no. Col cattolicesimo cambia tutto, almeno in teoria: in pratica ancora oggi violentare una fanciulla equivale a disonorarla, non solo a Siracusa. La leggenda è rivoluzionaria anche rispetto agli usi e ai costumi di oggi (altro che “non possiamo non dirci cristiani”, dobbiamo ancora del tutto liberarci del paganesimo): se Lucia ha deciso di essere Santa e vergine, nessun cliente di lupanare potrà farle cambiare idea: “Non inquinatur corpus nisi de consensu mentis“. È un dettaglio cruciale: la vera verginità non sta nell’imene, ma nella volontà.

Dopo aver teorizzato una cosa che ancora per secoli farà discutere i teologi (si può essere Santi anche se ti violentano?), dopo aver affermato con serenità che Lucia avrebbe potuto essere vergine anche nel mezzo di un bordello… la leggenda fa un passo indietro, e impedisce a Lucia di entrarvi effettivamente, nel bordello: la fantasia non osa ancora spingersi dove è arrivata la teoria. Così lo Spirito Santo aumenta all’istante il peso specifico di Lucia, che, rigida come il marmo risulta intrasportabile: Pascasio la fa attaccare a mille paia di buoi (“cum viris mille paria boum“), ma niente da fare. Decidono quindi di rovesciarle addosso la pece e darle fuoco, ma nemmeno questo funziona: alla fine riescono ad aprirle la giugulare, ma Lucia prima di morire ha ancora la soddisfazione di vedere le fiamme gialle che irrompono nel tribunale e portano via Pascasio, accusato naturalmente di malversazione – specialità della Sicilia più o meno da Verre a Totò Cuffaro. Nel frattempo Lucia annuncia la morte dell’imperatore d’occidente Massimiano e l’esilio del suo collega Diocleziano – e qui Jacopo de Varazze prende una cantonata: con tutti i cristiani che ha fatto ammazzare Diocleziano a conti fatti è l’unico imperatore del terzo secolo che dopo vent’anni di onorato servizio se ne andrà in pensione a coltivar cavoli a Spalato. E la storia insomma è questa qua.

Ora se permettete me ne vado a letto, ho sentito un lontano scalpicciare di zoccoli e non ho intenzione di farmi trovare sveglio, siccome ho scritto alla Santa a proposito di una certa autoradio con la presa USB. Alla prossima notte, le mie da domani sembreranno già più brevi.

(A Lucia, che mille paia di buoi non hanno smosso; che la pece ardente non ha scottato; che mi è stata accanto nelle notti più lunghe).

Leonardo Tondelli

Da Modena. Nel 1984 entra alla scuola media, non ne è più uscito. Da 15 anni scrive su uno dei più verbosi blog italiani, leonardo.blogspot.com. Ha scritto sull'Unità e su altri siti. Sul Post scrive di Dylan e di altri santi del calendario.