L’esperto Caselli

Quando un giornale pubblica il parere di un magistrato su cose che riguardano la giustizia, noialtri persone qualunque lo leggiamo con l’attenzione di chi cerca guide tecniche e competenti in un campo ignoto e ostile. Ancora di più questo avviene quando il tema è delicato e complesso come la riforma Alfano e l’esperto è un magistrato famoso e importante come Giancarlo Caselli.

Caselli però, intervistato dal Corriere della Sera, fa oggi il contrario di quello che ci si attenderebbe da un esperto: e risponde sul tema dell’assoluzione definitiva in primo grado come farebbe uno qualunque di noi totalmente sprovveduto, argomentando con logica spicciola e frasi ad effetto. Offrendo a chi lo legge l’obiezione che se si abolisce il processo d’appello per gli assolti lo si dovrebbe abolire anche per i condannati. Che noi ignoranti diciamo “eccerto, giusto, così siamo pari”. Solo che Caselli sa bene che accusa e difesa non giocano una partita. Non sono due squadre. Non sono pari. Sa che un condannato e un assolto non sono due esiti equivalenti di un processo.

Caselli sa, e dovrebbe dire, che i nostri principi giuridici tutelano l’imputato e prevedono – per restare sul suo piano metaforico – che in caso di parità vince lui. Che “in dubio pro reo”. Che è meglio un colpevole libero che un innocente in carcere. E che, quindi, la norma sull’assoluzione definitiva in primo grado discende da questi principi e dall’idea che se un imputato è stato assolto una volta da una corte questo costituisca almeno “un ragionevole dubbio” sulla sua colpevolezza. Che oggi un imputato condannato in secondo grado e in Cassazione, sconta una pena pur essendo stato una volta assolto da un processo (i tribunali americani, per dire, richiedono addirittura le unanimità delle giurie).

E quindi, cosa che Caselli sa e tace per tutta l’intervista, la discussione non è sul dare un aiutino alla squadra degli imputati e non darlo alla squadra degli accusatori. La discussione è sul garantismo e sulla fondatezza o meno del principio sul “ragionevole dubbio”: Caselli lo sa, e non ne fa cenno (neanche usando il valido ma abusato argomento della lotta alla mafia). La giustizia e il diritto sono un’altra cosa, le si leggono in un altro modo, le si spiegano in un altro modo, non coi paragoni sulle radiografie.

Ma anche se l’abolizione dell’appello per gli innocenti fosse l’unico punto Caselli sarebbe contrario. Perché? I processi si accorcerebbero.
«Certo, ma il pm non presenta appello per sfizio o per avere ragione per forza. Ma perché tutela la legge. Bisogna guardare le cose non solo dal punto di vista dell’imputato ma anche dell’interesse sociale che è non avere colpevoli in libertà».
Si obietta che non è giusto tenere anni un cittadino sulla graticola.
«Ma se si riduce la possibilità di appello bisogna farlo per tutti: innocenti e colpevoli. Come nella maggioranza dei Paesi occidentali».
Perché?
«Altrimenti si altera il principio della parità delle armi tra accusa e difesa. La legge Pecorella, che lo propose, venne bocciata dalla Corte Costituzionale (che sarà pure composta da comunisti ma anche dai maggiori giuristi di questo Paese) proprio per questo. Oltre al fatto che non faceva distinzione tra reati. E impedirebbe l’appello anche per i più gravi delitti. Ma c’è di più».
Ovvero?
«Il giudice fa un mestiere difficile come quello del medico, ma non ha a disposizione radiografia, risonanza, tac. Ha una conoscenza debole che deve accontentarsi della prospettazione fatta dalle parti contrapposte. La differenza di valutazione è dietro l’angolo. Che ci siano altre verifiche e riletture degli atti la trovo una garanzia importante per l’accertamento dei fatti. Ci è successo di recente con un processo per mafia»

Luca Sofri

Giornalista e direttore del Post. Ha scritto per Vanity Fair, Wired, La Gazzetta dello Sport, Internazionale. Ha condotto Otto e mezzo su La7 e Condor su Radio Due. Per Rizzoli ha pubblicato Playlist (2008), Un grande paese (2011) e Notizie che non lo erano (2016).