Le cose tra Renzi e Napolitano

Preoccupazione diffusa per il deterioramento dei rapporti, mai stati facili, tra il capo dello stato e il Pd, anche nella sua virtuale versione renziana.
Non è per sminuire la situazione attuale che occorre ricordare, come faceva ieri Europa, che nella relazione tra Quirinale e Nazareno ci sono stati momenti anche peggiori. Serve a capire quale sia il punto critico.
Visto dal Pd, Napolitano rappresenta da almeno due anni un continuo e spesso irritante richiamo al principio di realtà. A nessuno piace che gli si ricordi la propria immaturità e la propria incapacità, nel caso del Pd, a risolvere le crisi da sé, contando su una forza elettorale e parlamentare sufficiente e su una cultura politica non subalterna al giustizialismo.

Ben prima che Renzi avesse voce in capitolo, il Pd di Bersani aveva recalcitrato e mugugnato quando Napolitano l’aveva trascinato nella stagione tecnica di Monti, sottraendogli una preda che sembrava a portata di mano nonostante i democratici avessero fatto poco per meritarla: la sconfitta elettorale di Berlusconi messo in crisi dalle potenze europee.
Con Bersani, tanti pensano che quel novembre 2011 sia l’origine di tutti i loro guai successivi. Non accorgendosi forse che, nella situazione italiana di allora, se si fosse andati alle elezioni molto del lavoro sporco svolto dai tecnici sarebbe toccato comunque al Pd. E soprattutto che Napolitano, avendo un polso del paese evidentemente migliore di quello dei partiti, fin da allora implorava affinché questi ultimi utilizzassero il tempo della transizione per ridarsi decoro agli occhi dei cittadini, sui temi del costo e del funzionamento della politica.
È colpa del Quirinale se, a due anni di distanza, siamo ancora a caro amico su finanziamento pubblico, legge elettorale, bicameralismo, con le conseguenze viste a febbraio nel voto a Grillo?

Il punto ora con Matteo Renzi diventa questo, e forse impone anche al capo dello stato qualche riflessione ulteriore: che neanche la stagione delle larghe intese riesce a sbloccare lo stallo sulle riforme istituzionali; che le soluzioni intraviste (soprattutto sulla legge elettorale) sono prodotti mediocri (e paraltro ancora improbabili) di equilibri politici troppo precari; e che Renzi, nella sua volontà di restituire autonomia e forza al Pd, ha bisogno di rimarcarne e difenderne la vocazione bipolarista.
Insomma, per paradosso proprio nel momento in cui nel Pd si fa largo un leader in grado di farlo uscire dallo stato di minorità che Napolitano ha sempre sofferto, e rispetto al quale ha dovuto esercitare supplenza, ecco che i rapporti sembrano perfino peggiorare.

Può darsi che il capo dello stato abbia una sua idea sul tipo di personalità che dal governo possa farsi carico dell’uscita dell’Italia dalla crisi. È probabile che l’identikit corrisponda molto più a Enrico Letta che al sindaco di Firenze. Ed è certificato che Napolitano abbia legato il rinnovo di mandato al varo delle riforme istituzionali in questa legislatura, con questa maggioranza, sotto l’egida di questo governo: un vincolo già difeso negli ultimi mesi con apprezzabile efficacia a scapito dei falchi del Pdl.
Aggiungiamoci che, per imporre la propria leadership e la propria visione di un Pd autonomo ed emancipato da tutele (come lo vuole anche la base democratica che va a congresso), Renzi s’è mosso in modo piuttosto ruvido.
Dopo questi anni dovrebbe essere chiaro che fra le molte persone e istituzioni d’Italia che meritano una rottamazione non figura la presidenza della repubblica.
Rivendicare il diritto al dissenso verso il Colle fa sorridere. Siamo negli anni di Santanché e Grillo, Sallusti e Travaglio, Ingroia e Bossi: sai che originalità, dissentire dal Quirinale.

Quanto al messaggio sulle carceri, si tratta di un documento argomentato e frutto di un’oggettiva condizione di rischio per l’Italia (oltre che di umiliazione per persone che, come i giovani citati a Bari, hanno anch’essi nomi e cognomi).
Sulle carceri come sulla riforma elettorale, e in generale sulle modalità d’uscita dallo stallo italiano, la forza da mettere in campo non è quella del dissenso verbale: è quella della soluzione politica alternativa praticabile. Praticabile al punto di poterla imporre, se necessario, anche contro il parere del capo dello stato.
C’è sul sistema elettorale una manovra neo-proporzionalista che parte dal senato e va fermata? Sicuramente sì. Qualcuno pensa che se ne potrebbe fare agente la Corte costituzionale, esorbitando dai propri compiti nell’emettere la prossima sentenza sul Porcellum? A questo pensava Renzi quando, inopinatamente, ha sparato una bordata contro le costose prerogative pensionistiche dei membri della Consulta. Ha fatto bene, il messaggio sarà arrivato. Ma questa è ancora interdizione, non gioco d’attacco.

La leadership di Renzi si misurerà – e anche sul Colle sapranno misurarla – se e quando avrà spianato la strada a una riforma elettorale possibile, anche a costo di una prova di forza con la destra a patto che la prova di forza serva all’obiettivo e non solo a mandare per aria larghe intese, governo e legislatura. Col bel risultato che presto Renzi ci riporterebbe sì a votare. Ma col Porcellum: proprio come fece Bersani, e probabilmente con lo stesso risultato.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.