La prossima partita sarà diversa

È un voto facilissimo da leggere, difficilissimo da gestire. Conferma e amplifica ciò che già si era visto al primo turno: la dissoluzione del blocco elettorale del centrodestra, che si disperde in decine di rivoli. Il più corposo dei quali – praticamente un fiume – finisce nell’astensione. Ma il flusso politicamente più significativo conduce laddove nessun berlusconiano o leghista può più sperare di arrivare: nella più estrema richiesta di cambiamento rappresentata dai candidati di Grillo.

Ci si può concentrare e si può litigare sulle difficoltà che da ora in poi avrà il Pd. È anche giusto farlo. Ma il vero tema dei prossimi mesi sarà come il ceto politico post-berlusconiano e post-bossiano possa pensare di rispondere a un rigetto così radicale, estremo, totale e uniforme in ogni parte d’Italia. Il Pd e il centrosinistra battono il vecchio centrodestra con facilità irrisoria, dovunque. Anche al Nord, fatto davvero storico, tra i due grandi antagonisti della Seconda repubblica non c’è più partita. Infatti la partita è diventata un’altra. E Parma e Palermo avvertono il Pd che non può essere sicuro di vincerla: i suoi schemi, i candidati e le parole d’ordine sono tuttora tarati contro un avversario che non c’è più, o almeno non sarà mai più lo stesso.

Se per un periodo più o meno lungo dovesse venir meno il dualismo centrosinistra/centrodestra, il Pd correrebbe il rischio – cito Mario Rodriguez – di essere vissuto dagli elettori come l’unico sopravvissuto del vecchio sistema: posizione pericolosissima. Bersani lo sa, se n’è avvertita la consapevolezza ieri in una conferenza stampa pur improntata all’orgoglio e alla rivendicazione della vittoria «senza se e senza ma».
Fino a questa svolta della storia politica italiana, la proposta di solidità e affidabilità offerta da Bersani ha pagato. Nonostante errori, scandali e il forte vento antipolitico, questa immagine ha evitato al Pd di condividere la sorte di Pdl e Lega: alla fine, giustamente, loro pagano le responsabilità della crisi a lungo negata, e pagano il crollo delle due leadership personali e insostituibili. Esattamente al contrario, il Pd rimane in piedi – e vince – perché è un partito “normale”, e perché di fronte alla crisi ha compiuto scelte coraggiose e responsabili.
Ma nel momento stesso in cui queste qualità risaltano e pagano elettoralmente (per defezione altrui, non per un forte avanzamento proprio), ecco che già appaiono superate dagli eventi. Insufficienti.
Il Pd non intercetta neanche una goccia dello scioglimento del ghiacciaio elettorale berlusconiano e leghista (che era maggioranza nel paese).
A Parma, come dimostra l’analisi dei flussi di Paolo Natale su Europa, il candidato grillino fa il pieno di tutto ciò che rimane fuori dal recinto tradizionale del Pd: evitiamo le letture facilitate, questo non accade solo per le indicazioni di voto date da alcuni maggiorenti del Pdl. Gli elettori sono persone libere e non fanno dispetti.
Chi vuole male al Pd scriverà e titolerà oggi, per bene che vada, sulla vittoria mutilata. Altri già si spingono fino a parlare di sconfitta, il che è un po’ comico.
La verità è che il campanello d’allarme suona per il Pd in tempo per evitare cattive sorprese tipo quella capitata nel 1994 a Occhetto.
Non è un problema di appoggio al governo Monti, anzi. Com’era evidente fin dal dicembre scorso, questo problema ci sarebbe stato ed effettivamente c’è solo per il Pdl, al quale peraltro è negata anche la facile alternativa di passare all’opposizione, come dimostra la batosta della Lega.

Il problema è mettersi da subito, di corsa, nelle condizioni di giocare da vincenti anche la prossima competizione. Quando non servirà a nulla rivendicare i meriti dell’opposizione a Berlusconi perché troppo tempo sarà passato, troppe cose saranno cambiate e soprattutto perché non ci saranno più berlusconiani da sconfiggere: se anche da quella stazione passasse un treno di Montezemolo, certo non si fermerà per farli salire.
La prossima partita si giocherà, oltre che sulla affidabilità per risolvere la crisi economica, soprattutto sul tasso di novità, di trasparenza, di apertura vera alla società. Ci vorranno primarie dappertutto (cercando di scoraggiare le candidature d’apparato) e un ricambio basato sul merito e sui rapporti col territorio più che sulla fedeltà alla linea.
Il Grillo ha detto la sua e tante altre ne dirà, non c’è da farsi spaventare. Più importante è quello che hanno detto gli italiani: hanno detto che il centrosinistra riformista potrà governare il paese, anche perché è l’unico che può farlo. Prima però deve cambiare se stesso, sul serio.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.