La legge sulle intercettazioni è come la legge Sirchia

È incredibile, mentono tutti. Che mentano è la migliore delle ipotesi, visto che altrimenti dovremmo pensare che Ferruccio De Bortoli e Vittorio Grevi e Luigi Ferrarella (Corriere) e Mario Calabresi e Massimo Gramellini (Stampa) ed Ezio Mauro e Gustavo Zagrebelsky (Repubblica) e tantissimi altri, praticamente tutti, ignorino non tanto la nuova norma sul segreto investigativo, bensì la precedente, cioè l’attuale, quella varata nel 1989. Che cosa dice la vecchia norma, alias gli articoli 684 e 329 del Codice di procedura penale? Dice che un atto d’indagine non è più segreto dopo che un indagato ne sia venuto a conoscenza – e sin qui ci siamo – ma aggiunge che è ugualmente vietato pubblicare il testo virgolettato di un interrogatorio o di un’intercettazione: se ne può ossia pubblicare il contenuto (il famoso «riassunto») ma niente di testuale. E allora qual è la differenza sostanziale con la nuova norma? Eccola qui, molto italiana: la differenza è che tutti se ne sono fottuti, sino a oggi, perché era prevista soltanto una multa ridicola di 130 euro (con oblazione, cioè senza neanche un processo) mentre il nuovo disegno di legge prevede sanzioni che giornalisti ed editori non potranno trascurare, se applicate. È come per la legge Sirchia sul fumo: i divieti c’erano tutti anche prima, identici, ma erano blandi e quindi tutti se ne fregavano.

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Filippo Facci

Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia. È autore di Di Pietro, La storia vera