Il servizio pubblico e i libri

Da quando il Post commentò criticamente il progetto di legge sul commercio dei libri e ne nacque un ricco dibattito, ho continuato a riflettere sulla complicata questione e a parlarne con diverse persone coinvolte professionalmente. La domanda accademica a cui dare una risposta sembra apparentemente semplice, ed è: è giusto permettere al mercato di definire con le sue regole e sviluppi anche il settore dei libri, trattandoli alla stregua della quasi totalità degli altri prodotti?

Un principio di liberismo assoluto e di sospetto nei confronti dell’imparzialità degli arbitri farebbe rispondere di sì sempre, ma è un principio teorico che nei fatti non può esistere. Basta pensare ai prodotti medicinali che le farmacie sono obbligate a fornire anche quando non ne hanno convenienza economica, com’è giusto. O ai molti altri casi in cui un intervento statale modera i rischi e le controindicazioni per la comunità dell’affidare alle leggi del mercato ogni scelta, proteggendo le necessità delle minoranze o dei più bisognosi (comunità a cui a tutti può capitare di appartenere, di volta in volta). Liberismo e statalismo assoluti, come tutti i bianco o nero, non funzionano: bisogna sempre trovare la scala di grigio più adeguata, e disporsi a spostarsi spesso.

Nel caso dei libri (e più in generale della cultura) la domanda è se la sopravvivenza di culture, informazioni, opinioni minoritarie e meno popolari – e quindi commercialmente a rischio – meriti essere difesa con interventi artificiali che creino degli handicap per i più forti e di fatto limitino la libera concorrenza, principio che suona bene ma che spesso implica la vittoria del più forte sul piano commerciale, che non è sempre quella della qualità culturale del prodotto. Un po’ quello che avviene con le famigerate norme sui finanziamenti ai giornali, difficilissime da applicare efficacemente ma fondate su ottime ragioni: ovvero che una società libera e democratica debba avere a disposizione non solo le informazioni delle maggioranze, politiche, sociali o intellettuali che siano.

Un altro modello con cui confrontarsi è quello del servizio pubblico televisivo. La necessità e l’intenzione sono le stesse – garantire l’esistenza di una funzione informativa e pedagogica dell’informazione di massa, sfruttarla per creare un’opinione pubblica libera e informata – ma i risultati sono divenuti ultimamente così incasinati da suggerire a molti di rinunciare e privatizzare la Rai.

Con i libri il problema è simile: in parte i titoli di maggior successo popolare e in parte le aziende di maggior forza ottengono per sé quasi tutto il beneficio delle regole del mercato. La potenza di gruppi forti e ricchi che gestiscono anche distribuzione e vendita, e molta comunicazione pubblicitaria, rende molto fragile la coda lunga dei titoli meno forti: quasi tutto il mercato è occupato da pochi titoli di successo e superpromossi e aiutati da questa logica. La questione non è la sopravivenza di piccole librerie o piccole case editrici per ragioni pittoresche o nostalgiche: ma la loro funzione pubblica di compensazione di queste regole nel completare l’offerta e soddisfare domande che ci sono, ma sono minoritarie, o la cui esistenza e pluralità è un vantaggio per la comunità.

Applicando – siamo sempre all’accademia – il percorso televisivo, quello che portò alla creazione del servizio pubblico Rai, si dovrebbe pensare a librerie di stato che vendano o promuovano titoli ritenuti di pubblico interesse, costruendo e aumentando la domanda. Ma sarebbe un progetto impensabile e con molte controindicazioni: tutte quelle che hanno messo in crisi il servizio pubblico radiotelevisivo più molte altre dovute tra l’altro all’esistenza di un mercato già consolidato con molti attori che sarebbero ingiustamente danneggiati da una concorrenza sleale e che sarebbero ulteriormente sospinti verso una funzione unicamente commerciale.
Una mediazione potrebbe essere forse rappresentata da incentivi e stimoli che premino il pluralismo dell’offerta da parte di editori e librai, anche se le implicazioni e le variabili conseguenti ai criteri di applicazione di incentivi sarebbero un bel casino difficile da controllare: come il caso degli abusati finanziamenti ai giornali dimostra. Per esempio, coprire con finanziamenti pubblici un sistema di detrazioni o sconti per libri che vendano un minimo da esserne meritevoli ma meno di un massimo da averne bisogno: rischierebbe di produrre inghippi e trucchi difficili da tenere sotto controllo.

Insomma è una materia molto complicata, su cui varrebbe la pena di capire e spiegare meglio non solo tra addetti ai lavori e non solo con logiche egoiste e di contrapposizione tra grandi e piccoli: la priorità sono i lettori, sia quelli che vogliono poter scegliere e non trovare ovunque vetrine e pile degli stessi dieci titoli, sia quelli che vogliono poter pagare meno i libri. Non si può contestare le leggi del mercato perché non garantiscono la sopravvivenza di imprese commerciali: il problema è un altro. Che la soluzione sia ridurre per legge gli sconti – danneggiando i lettori – invece che permetterne di più, continua a non sembrarmi una soluzione.

p.s. Per fare meno accademia e metterci un aneddoto concreto: c’è un mio libro nelle librerie, pubblicato con un grosso editore, quindi abbastanza privilegiato, nel suo piccolo. La settimana scorsa ne volevo comprare una copia da regalare una persona e sono entrato nella libreria di una grossa catena dove ne avevo visto alcune copie qualche giorno prima. Il libraio, mortificato, mi ha spiegato che la direzione centrale gliele aveva appena fatte restituire tutte come “rese” – insieme ad altri titoli di appena due o tre mesi fa – per chiudere il bilancio stagionale con più soldi possibile nella colonna degli attivi. Questo malgrado il libro – sconti vigenti compresi – costi appena 7 euro e mezzo e malgrado si venda ancora, per cui il libraio lo riordinerà immediatamente per averlo disponibile nel trimestre successivo: ma questo non capiterà per tutti. E molte bizzarrie “di mercato” come queste orientano i criteri con cui vengono promossi e diffusi i libri che formano un pezzetto – piccolo, per carità – delle opinioni e della cultura di un paese.


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Luca Sofri

Giornalista e direttore del Post. Ha scritto per Vanity Fair, Wired, La Gazzetta dello Sport, Internazionale. Ha condotto Otto e mezzo su La7 e Condor su Radio Due. Per Rizzoli ha pubblicato Playlist (2008), Un grande paese (2011) e Notizie che non lo erano (2016).