Il Pd ha già vinto le primarie

Dovrebbero rasserenarsi, e lo faranno prima o poi, tutti quelli che per un motivo o per l’altro esprimono disagio, dissenso, distanza, dispetto.
Quelli che si preoccupano perché i candidati alle primarie si presentano con programmi contrastanti (l’anomalia sarebbe l’opposto, e ci siamo passati).
Quelli che non si riconoscono nella scelta secca fra Bersani e Renzi (perché non vi vedono uno spazio per sé, sindrome trasversale alle generazioni, che accomuna ex rottamandi ed ex rottamatori).
Quelli che sono angosciati dalle procedure, o dalla coerenza fra primarie e sistema elettorale (pensando che le regole possano sostituire, alterare o inficiare processi politici che invece sono perfettamente leggibili).
Quelli che soffrono per le divisioni (nobile sentimento che dimentica come ogni fenomeno politico, ogni partito e in definitiva la politica in sé, tutto sia frutto di una qualche divisione del passato, spesso benefica).

In realtà, il Pd sta vincendo le sue primarie. È già oggi migliore come partito, e meglio piazzato sulla scena, di come fosse solo due mesi fa. Bersani anticipa ciò che dovrà fare comunque: il ricambio di gruppo dirigente. Affida ai giovani la propria campagna. Sono tutti della corrente Orfini-Fassina, cosa che può risultare squilibrata, ma più dell’orientamento è oggi importante che il segretario non faccia cosmesi, ma dia loro più spazio e potere di quanto ne ebbero, per citare un precedente, quelli della segreteria Veltroni. Tanto, dal Nord si avverte già la pressione emiliano-lombarda dei riformisti estranei alla koiné politico-culturale della famosa sezione Mazzini del Pci-Pds-Ds (raccontata oggi su Europa da Mario Lavia): l’eventuale deriva de sinistra troverà altri argini, oltre ai numeri di Renzi.

La mossa anti-establishment di Bersani è già un successo del suo sfidante. Come le reiterate dichiarazioni di lealtà al Pd da parte di Renzi sono un successo di Bersani. Ognuno deve recuperare sui propri punti deboli: fin qui la competizione è virtuosa.
Il Pd ne guadagna nel suo insieme, anche se si leggono sui giornali titoli sulla riapertura della faglia fra Ds e Margherita, un rischio denunciato anche da Veltroni a Firenze. In realtà accade l’opposto, e può darsi che ci si sia chi ne risulta spiazzato. In queste primarie le linee di frattura e di riaggregazione attraversano le provenienze; ricalcano modi diversi di concepire il riformismo, il progressismo, l’essere di sinistra; alludono (ancora alludono: troppo poco) a politiche diverse per pilotare il paese fuori dalle secche della crisi; richiamano l’interesse e la partecipazione di singole persone o di aree politiche (cattolici, radicali, socialisti, sinistra critica) che erano fuori dal Pd o se n’erano allontanate; infine, stanno salendo finalmente alla ribalta del partito i famosi nativi democratici. Ds e Margherita ormai sono dati biografici, o poco più.

Tutto ciò riconduce il Pd al centro dell’attenzione positiva non solo di media e addetti ai lavori ma dell’opinione pubblica ampia, e in definitiva dell’elettorato.
È stridente e clamoroso il contrasto fra la gara a tre Bersani-Renzi- Vendola nel centrosinistra, e il disfacimento del centrodestra, a Roma e non solo. L’unica occasione che hanno i dirigenti del Pdl di parlare di politica, e non di bonifici e festini, è quando commentano le primarie degli avversari.

Tutto ciò – anche se ora non lo si vede, o non lo si vuole vedere – dà al Pd e al centrosinistra un vantaggio enorme. Non esiste una democrazia occidentale dove la competizione appaia tanto squilibrata quanto a qualità dei processi politici in corso negli schieramenti contrapposti (e ci mettiamo dentro anche il minestrone di centro).
In più, come è stato già notato, Renzi rappresenta per l’intera ditta lo strumento di penetrazione nell’elettorato disperso e deluso: un’arma da utilizzare in ogni caso.
Naturalmente Tafazzi si aggira nei paraggi: lo scadimento in rissa è sempre possibile.
Dovessimo dire, però, nessuno dei tre veri antagonisti delle primarie pare interessato, e neanche personalmente portato, alla mischia distruttiva. È chiaro che lo scontro non sarà pacifico, ma può dire che alla fine rimarranno rovine solo chi si senta personalmente non collocato, e anteponga la propria comprensibile sofferenza al giudizio distaccato sulla crescita complessiva del Pd in questa vicenda.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.