Il canale Telegram dei segnali deboli

A due anni da quando ho aperto Mostly, I Write, il mio canale su Telegram, ho capito meglio cosa faccio: sto leggendo, sto scrivendo e forse sto facendo anche un esperimento sul mio lavoro di giornalista.

Questo post segue quanto avevo scritto quasi due anni fa:

Da poco tempo, quindi, Telegram (che tra questi citati finora è il servizio che mi piace di più) ha creato dei “canali”, che sono in sostanza degli ambienti a cui ci si può iscrivere (c’è un link web, quello al mio canale ad esempio è https://telegram.me/mostlyiwrite) e partecipare a trasmissioni broadcast asimmetriche. Cioè l’amministratore del canale posta i messaggi, tutti gli altri possono solo leggerli o al limite rinviarli ad altri canali e contatti.

Sono passati due anni, oggi i fratelli Nikolai e Pavel Durov si difendono dai magistrati russi che cercano di farsi consegnare le chiavi della crittografia degli utenti, ma pensano anche di quotarsi e magari fare la loro Blockchain. Insomma, la vita va avanti e di cose nuove ne succedono sempre. Va avanti anche il mio piccolo canale, che da una dozzina di utenti e passato a poco più di 950. Ha superato la soglia di un innocente hobby ed è diventato qualcosa di più, seppure sempre amatoriale e soprattutto senza fini di lucro.

Infatti, nella teoria piuttosto articolata di cose che si possono fare su Telegram come sul web, con canali pieni di oggetti in promozione per i quali il segnalatore guadagna una piccola cifra sulla base di un codice oppure con pubblicità e altri sistemi analoghi senza bisogno di arrivare alla Facebook di turno, ho scoperto che mi diverto a mandare avanti il mio canale e non ho intenzione di guadagnarci, almeno direttamente.

È stato ed è così anche per il blog che ho aperto nel 2002: un divertimento e una passione per la scrittura e l’internet con delle buone ricadute reputazionali, ma niente più.

Con il canale il discorso è ancora più sfumato. Perché non c’è ovviamente l’enfasi e l’attenzione che c’è stata a metà dello scorso decennio per i blog. E poi c’è la natura “chiusa” del mezzo: ci sono ovviamente i link sul web per andare sul canale, ma quello che viene scritto non è che io sappia trovarlo con una ricerca con Google, Bing o DuckDuckGo. A differenza di Whatsapp, però, Telegram è a mio avviso più “morbido” e si può utilizzare con maggiore facilità su strumenti diversi (è uno dei motivi per cui lo preferisco), e cioè sia su telefono che tablet che computer, senza sgami e senza deficitarie app “incomplete” che obbligano a tenere il telefono acceso e connesso. Poi, ovviamente, è questione di gusti.

La relativa insularità di Telegram e il suo essere una cosa diversa dalla pasta di cui è fatta la maggior parte di Internet, cioè la webcentricità di quest’ultima – della quale vorrei tornare a parlare molto presto, perché è un altro argomento per me interessante -, me lo rende però più utile come esperimento su me stesso. Per avere persone che seguono attivamente il tuo canale devi muoverti attraverso diversi sottoinsiemi (gente connessa, tendenzialmente con smartphone, con Telegram, che si iscrive e poi effettivamente guarda quel che scrivi) ma quando arrivi al dunque qualcosa cominci a capire.

I canali che ho visto sono di tre tipi: fatti di pura e semplice passione, fatti per alimentare un filone commerciale (le famose promozioni di cui sopra), fatti semplicemente per tenere informati di quel che succede altrove, cioè sul web. Di quest’ultima categoria esistono varie gradazioni: chi spiattella pari pari quel che mette sul web, oppure come Fumettologica fa un minimo di attività di content curation e di promozione simil-social.

Poi c’è ovviamente la materia oscura di Telegram, simmetricamente al Dark Web e a tutte quelle cose che viaggiano sotto la superficie del lecito: canali dedicati allo “spaccio” di password craccate per Netflix e Spotify (ma anche di qualsiasi altro servizio su abbonamento, da Steam a Dezeer) passando per la condivisione di file piratati (musica, film, telefilm, libri, qualsiasi altra cosa fino a 1,5 GB) e materiale veramente brutto (Telegram ha chiuso alcuni canali perché reindirizzavano a materiale pedo-pornografico). E siccome viviamo nell’era del mash-up, ci sono canali che aggregano informazioni magari su altri canali oppure su altri servizi dove ad esempio si fa streaming di film e telefilm oppure mercimonio di mp3 ed epub.

Se questa è la Gallia, che è cioè divisa in tre parti (più una), qual è stato il mio esperimento? Volevo fare un esercizio di content curation come lo chiamano quelli che fanno i libri di marketing. E questo nasceva da un problema personale che ho nella gestione delle cose che leggo sul web. Sono un accumulatore seriale e mi ritrovo con decine e decine di finestre di Safari aperte, oppure con infinite listone in documenti txt di indirizzi di cose con titoletti (“Da vedere”, “Utili per il tema Facebook e privacy”, “Ricordati di guardarli” etc.). Senza contare la mole spaventosa di cose salvate su Pocket (e grazie che non uso Instapaper, sennò anche là…). Ho insomma difficoltà a organizzarmi e soprattutto a lasciar andare il contenuto. Per farlo, ho pensato che condividerlo fosse un buon sistema ed effettivamente mi ha dato quella closure che cercavo.

A questo punto siamo passati alla fase due: non ho mai trovato un modo efficace né per organizzare le mie disordinate letture né per rendermi effettivamente conto di quel che leggo. Voglio dire: il mestiere del giornalista prevede che uno sia sempre aggiornato sia sull’attualità in generale che sulle cose che attengono al suo settore di competenza in particolare. Questo significa leggere tonnellate di giornali e di articoli su media diversi, ogni giorno. Semplificando alla parte web (cosa che ho fatto già da tempo tagliando via qualsiasi forma di carta tranne le mie riviste straniere preferite ma quelle le collezioni quindi è un’altra storia), mi sono reso conto che la grande apertura di temi e di lingue che ho studiato (quattro oltre l’italiano) si è nel tempo rarefatta.

Invece, leggo sempre più cose solo in inglese, sempre più solo dalle solite 4-5 fonti, sempre più rivolte verso gli Stati Uniti (in questi due anni ho beccato l’ascesa di Donald Trump, che è diventato il discorso del nostro tempo), sempre più cose nerd di tecnologia (con una grande abbondanza di VIm, l’editor di testo che mi ha tentato: vorrei mettere lo sticker del suo logo sopra il coperchio del mio MacBook: se avete idea di dove si comprino…), sempre più cose di filosofia e “senso della vita”. L’attualità poca è presa più da Medium che non dal resto del mondo (che poi è raccontata dal Guardian, dal NYTimes, dal New Yorker, dall’Atlantic, da Wired US, dalla Paris Review e di quando in quando anche da The Believer).

Insomma, se Mostly, I Write rappresentasse davvero la mia Weltanschauung (ma non la rappresenta, grazie a Dio), sarebbe una visione del mondo abbastanza ristretta. L’altra bolla antitetica rispetto a quella degli elettori di Trump.

Poi, c’è anche il flusso di quel che scrivo, che è molto meno di quello che era un tempo (quando ero giovane ero veramente un grafomane) e che ballonzola di fiore in fiore, di argomento in argomento, di testata in testata. Forse non se ne trae un quadro psicologico completo, ma almeno indizi di una nevrosi professionale penso che si scorgano. Travisa anche il senso di una difficoltà fortissima a identificarmi con il lavoro fatto dai miei colleghi, da un lato con le pagine dei giornali tradizionali nostrani che mi sembrano sempre più lontani dalla realtà in cui viviamo io e le persone attorno a me, e dall’altro con le pagine-post-news dei siti-blog-aggeggi-informativi che invece mi pare abbiano perso qualsiasi ritegno e vincolo deontologico di qualunque livello.

Non parliamo poi di identificarmi con il discorso e la prassi politica, e con il rapporto, pardon lo scollamento, tra politica e società. Il tutto condito da quel narcisismo imperante e da quel rimescolamento dei ruoli e delle posizioni che carattizza il nostro momento: volevamo la mobilità sociale in un Paese sclerotizzato e credo che l’attuale Parlamento sia la risposta, ma da un punto di vista meramente antropologico.

Aver guardato Mostly, I Write a lungo mi ha dato anche la misura di quanto poco alla fine mi interessi stare sui social tradizionali (Facebook, dal quale mi sono sospeso perché mi sono reso finalmente conto di cosa vuol dire esporsi completamente: lo sapevamo tutti ma non è una giustificazione valida per rimanere, secondo me), quanto mi piaccia di più la cura di una relazione lenta, lontana, con dei lettori (“membri” di qualcosa, secondo l’indicazione di Telegram, e non “amici” o “seguaci” secondo Facebook/Twitter/Instagram e altri).

Non ho raggiunto il livello di dialogo alle volte duro e serrato ma sostanzialmente intelligente e preparato che hanno la maggior parte dei commenti qui sul Post, ma questo forse non mi dispiace perché in realtà la maggior parte dei commenti mi mettono in difficoltà. Non so se è comune anche ad altre persone che scrivono, ma il rapporto senza mediazioni con i lettori in tanti siti, che sovente è diretto e percepibile come duro se non aggressivo, è per me abbastanza destabilizzante. Preferisco segnali più deboli, ma forse sono io ed è solo questione di gusti e sensibilità. Dopotutto, soprattutto scrivo, che è alla fine un’attività solitaria che richiede la lontananza più che la mescolanza.

Dopo due anni di Mostly, I Write posso dire che sono contento di quel che ho fatto; mi diverto e mi piace come impegno anche perché non è particolarmente gravoso. Alla fine la routine parte da quel che leggo – e vi garantisco che leggo un sacco di roba – e l’atto di postare un nuovo appunto su una cosa da leggere è abbastanza semplice e si può fare sia dal computer che dal telefonino, cosa che rende il processo per me assolutamente leggero. Cinque minuti al giorno e ci siamo. Compreso un ciao ciao digitale a qualche membro del canale che magari ti saluta con un messaggio diretto usando il tuo nick (@antoniodini nel mio caso). Lo trovo liberatorio, o forse è solo un grado di dipendenza e nevrosi superiore, come una droga sintetizzata sul mio Dna di giornalista, una sandbox esistenziale. Chissà. Per rispondere bisognerebbe capire se si può essere felici su Internet, ma temo che sia la domanda ad essere sbagliata, più che la risposta impossibile.

Antonio Dini

Giornalista e saggista, è nato a Firenze e ora vive a Milano. Scrive di tecnologia e ama volare, se deve anche in economica. Ha un blog dal 2002: Il Posto di Antonio