Fatemi una foto decente!

È Beppe Grillo che lo chiede ai fotografi.
Cronaca di questi giorni, in conferenza stampa, si piazza di fronte a loro e intima di fargli una “foto decente”. Ha ragione. Avete notato le sue foto? Lo dice lui stesso: sudato, brutto, vecchio, incazzato. Basta guardare le copertine dei settimanali.

Beppe Grillo

(pubblico solo questa dell’Espresso perché mi sembra abbiano un po’esagerato).

Beppe Grillo

Beppe Grillo

Un tempo i fotografi si temevano perché al loro obiettivo non sfuggiva nulla. I politici facevano fatica a “usarli” e ammaestrarli. Erano presenze abituali di ogni congresso o convegno: appostati fuori dai ristoranti o di fronte a Montecitorio, non c’era evento che non offrisse occasione per una buona fotografia.

E la buona fotografia era quella che trovavi sulle pagine del settimanale di attualità, ti fermavi a guardare, ti faceva sorridere, ti raccontava un aspetto di un personaggio, un suo tic. Nei casi eccellenti ti testimoniava un fatto o una relazione: ricordate la foto di Previti sul Barbarossa con quella che sarebbe diventata il teste Omega, Stefania Ariosto?
Quante volte di fronte a un fatto letto abbiamo dubitato, ma poi ci siamo ritrovati ad affermare: «è vero, l’ho visto in foto!».
Dunque la fotografia è documento e nella documentary-political-photography (l’ho coniato adesso) tante buone fotografie, singolarmente o messe insieme, ti raccontavano un mondo.
I vizi della vecchia Democrazia Cristiana li potevi trovare ogni settimana sull’Espresso. In quelle immagini c’era tutto il DNA della nostra classe politica, il generone, per usare un termine dell’epoca.

Quella fotografia irriverente e graffiante, ha contribuito non poco alle ascese/discese dei potenti: Craxi sotto il lancio delle monete davanti all’hotel Raphael o mentre fa le corna, sfacciatamente offerte ai fotografi. E poi Martelli, Forlani, Andreotti, tante fotografie che hanno indagato, a volte iconizzato, la Prima Repubblica. Ricordate Mario Chiesa, il Flinstone di tutti i corrotti? Ormai la sua immagine, quel singolo fotogramma, ha assunto e assumerà un valore prettamente simbolico legato all’idea di corruzione. Per quanto tempo abbiamo visto l’immagine di Antonio Di Pietro che toglie la toga dopo l’ultima udienza come pubblico ministero prima di scendere o salire in politica?
Quelle immagini sono la nostra memoria, il fotoracconto che ha accompagnato la scoperta e la comprensione della realtà.

Silvio Berlusconi scendendo in politica istituì un vero e proprio ufficio fotografico in cui la ormai mitica Mitì Simonetto si esercitava nel photoediting, raccogliendo le immagini da cestinare e quelle da diffondere per l’elogio del leader. Silvio deve aver imparato da Bettino: fu Craxi infatti il primo politico ad aver assunto il fotografo personale, Umberto Cicconi, intuendo il potere del controllo dell’immagine. Berlusconi è nato politicamente in concomitanza con il web e la pulsazione tachicardica delle immagini a getto continuo. Non è certo colpa sua se oggi la fotografia ha meno potere nel racconto dell’attualità politica.

Immaginate oggi un’addetta stampa che cerca nelle immagini della giornata quelle da cestinare ? Quale controllo avrebbe? Oggi Grillo chiede una foto decente e si mette di fronte alla calca dei reporter per essere ripreso, come vuole e quando vuole. Perché, se non vuole, lo abbiamo visto, si copre con un cappuccio e gli occhiali a specchio, sottolineando, con quel gesto assurdo e infantile, quanto l’immagine abbia peso e come possa essere pericolosa e dunque debba essere controllata.

L’Espresso, unico giornale che per tradizione dovrebbe e potrebbe fare un utilizzo politicamente irriverente delle immagini – con la sua straordinaria storia fotografica ha costruito parte del suo successo – oggi utilizza faziosamente l’abominio di Photoshop, quello in cui la pericolosità del personaggio avversario non è data dal carattere delineato attraverso snapshots ricche di dettagli, capaci di cogliere vizi e costumi, ma quanto dal ritratto esagerato e manipolato fino a essere mostruosamente artificiale, lontano e inutilmente aggressivo. Teatrale. Osceno.
I fotografi dal canto loro non fanno di meglio. Ci sono quelli che cercano l’assunzione presso i leaders di turno seguendo il capo ovunque e quelli che si sentono pittori fiamminghi, aiutati dal buon pennello digitale, che producono ritratti confortanti.
Entrambi riverenti.

Che nostalgia delle fotografie di Vezio Sabatini. Il nome non vi dirà molto, ma qua e là in rete qualcosa si trova. Uno indipendente che cercava i personaggi, le situazioni e poi la foto.
Ma i fotografi qualche attenuante ce l’hanno: scavalcati a destra e sinistra dai video dei cittadini arrabbiati della piazza – basta guardare quelli postati in questi giorni di Fassina e Franceschini insultati da un dissenso sguaiato – e dalle immagini dei supersmartphone nelle mani dei reporters per caso.

E così, in questi giorni di bulimica attesa di decisioni sbagliate e nello spettacolo dell’errore/orrore, mi fa uno strano effetto ripensare alla fotografia della prima vecchia Repubblica e riguardandola oggi mi sembra preziosa e immortale, capace di conservare un velo di autenticità. Ovviamente sappiamo che non è così.
Non so di chi sia la colpa: dei fotografi, dei photoeditor, dei politici, del web, di photoshop, o di tutti questi elementi messi insieme. Di chiunque sia, confesso che sento la mancanza del “racconto” fotografico e temo che tutto questo tanto, troppo veloce vedere frammenti, renda tale un giorno anche la nostra memoria. Frammentata appunto.

Renata Ferri

Giornalista, photoeditor di "Io Donna" il femminile del "Corriere della Sera" e di "AMICA", il mensile di Rcs Mediagroup. Insegna, scrive, cura progetti editoriali ed espositivi di singoli autori e collettivi.