La lista Falciani e i frutti avvelenati

La lista Falciani è il frutto di vari reati, commessi nei confronti della banca che ha subito il “furto”, e nei confronti dei vari correntisti i cui dati personali sono stati trattati da parte dello stesso Falciani senza consenso e senza lecita base normativa. Alla radice della vicenda c’è dunque una violazione del diritto fondamentale alla protezione dei dati personali; diritto riconosciuto a livello costituzionale in tutta Europa dall’art. 8 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea.

La domanda fondamentale sollevata dal caso è: può uno Stato di diritto fondare una condanna, sia essa amministrativa o penale, su prove che siano state acquisite illegalmente ed anzi che sono “corpo di reato”?
Più in generale: può una prova esser assunta e valutata da un giudice, se è il frutto della violazione di diritti fondamentali riconosciuti dall’ordinamento?

Da sempre si contrappongono due scuole di pensiero.

Quella garantista, spesso utilizzata da noi avvocati per tentare di fulminare prove in mano all’accusa, è sintetizzata in una famosa metafora botanica di origine statunitense: se le radici dell’albero sono avvelenate, anche il frutto è avvelenato. Le prove acquisite in spregio di diritti fondamentali, le prove incostituzionali, sono geneticamente inutilizzabili. La regina delle prove, la confessione, val nulla se l’interrogato è stato torturato.

La seconda, gradita ad investigatori, inquirenti e giudici, che per mestiere sono comprensibilmente affetti da una sorta di bulimia informativa, è racchiusa nel brocardo latino male captum bene retentum: l’illiceità nell’acquisizione della prova non si trasmette al risultato, che legittimamente può esser assunto e liberamente valutato dal giudice.

Sono stati scritti interi libri sul punto, ed il caso classico che si dibatteva in epoca pre-digitale era la prova di un orribile reato trovata grazie ad una perquisizione illecita, eseguita con plateale violazione di domicilio (il domicilio informatico, quello violato da Falciani, non è a tutt’oggi tutelato in Costituzione!). Che fare? Tutto inutilizzabile? La prova è tamquam non esset?
Uno dei più grandi processualisti italiani, Franco Cordero, da sempre sostiene che la categoria delle prove incostituzionali “è gesto oratorio fuori della sintassi, che stimola falsi garantismi destituiti d’ogni fondamento positivo, etico politico e culturale. Una roba buona per i film dell’ispettore Callaghan”.

In realtà sul fronte della procedura penale, e dunque non in materia fiscale-amministrativa, l’inutilizzabilità delle prove illecitamente acquisite o “incostituzionali” ha progressivamente conquistato consensi anche presso i giudici, e lo stesso legislatore, nel 2006, modificò un articoletto del codice di procedura (l’art.240 c.p.p.) imponendo all’autorità giudiziaria ”l’immediata distruzione dei documenti formati attraverso la raccolta illegale di informazioni”.
Articolo sacrosanto, che però, manco a dirlo, non fu una meditata e consapevole scelta a favore della tesi garantista dell’albero dai frutti velenosi, ma il consueto decreto emanato d’urgenza per tamponare fughe di notizie a seguito del caso Telecom-Sismi. Il timore dei vari politici dell’epoca di venir sputtanati pubblicamente dalle ipotizzate intercettazioni illegali di Tavaroli & C. produsse la classica norma d’urgenza, mal fatta e mal coordinata, che oggi indubbiamente agevola l’archiviazione dei vari procedimenti penali basati solo sulla lista Falciani (quella lista è evidentemente documento formato attraverso la raccolta illegale di informazioni e va distrutta) ma che lascia aperta la questione generale circa la valutazione delle prove formate in violazione di diritti costituzionali.

Ora la Cassazione Civile recupera terreno, ed essendo libera dai lacci della procedura penale, salva ai fini tributari la lista Falciani con due ordinanze che però mi paiono in diritto davvero deboli. In un periodo di voluntary disclosure e di rientro di capitali, la sensazione è che le ragioni “politiche” abbiano prevalso sulle valutazioni in diritto.

È infatti sorprendente che tra le tante parole spese nelle due ordinanze non sia mai neppure nominato, non dico valutato, il diritto alla protezione dei dati personali dei contribuenti, che pure nella vicenda è l’elemento di maggior criticità. Per carità, è vero che la nostra Costituzione non lo prevede, ma dimenticarsi della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione mi par fatto grave.

Il caso Falciani è in realtà una sorta di archetipo delle prove illegali del nostro tempo,che sono per lo più dati informatici acquisiti senza garanzie, ma la Corte di Cassazione non ha neppure sfiorato il problema del trattamento illecito di quei dati personali.

Nell’epoca della sorveglianza di massa (attuata da privati e dallo Stato), il diritto al controllo e alla tutela dei propri dati sancito nella Carta europea ha una funzione se possibile più importante del vecchio diritto all’inviolabilità del domicilio o alla riservatezza delle comunicazioni: è un diritto che attiene direttamente all’identità personale nel nostro tempo.
Con internet e la digitalizzazione dei nostri dati, siamo diventati tutti, più o meno volontariamente, trasparenti, catalogabili e fin anche prevedibili. Ad ogni nostra attività si associa una traccia, un dato, che è informazione, che viene archiviata e catalogata da mille soggetti diversi, per fini diversi. E quei dati, in sé spesso apparentemente poco significativi o sensibili, se messi insieme, combinati e trattati, (lecitamente o illecitamente) restituiscono mille rappresentazioni, più o meno fedeli, di noi.
I dati bancari sono, come mille altri, dati che raccontano i nostri acquisti, i nostri spostamenti tramite la moneta elettronica, il nostro tenore di vita e le nostre abitudini. E non è solo questione di soldi e di tasse.

Davvero una parte oggi preponderante della nostra identità, quella digitale, può esser rubata e posta a fondamento di sanzione da parte dello Stato senza alcuna garanzia? Come possiamo difenderci dalla sorveglianza di massa, spesso attuata dagli stessi Stati, se il primo che accede abusivamente al server della mia posta (dall’NSA al Falciani di turno) può rubare pezzi della mia vita e su di essi lo Stato giudica e sanziona?

Davvero siamo disposti a rinunciare a qualsivoglia garanzia nei confronti del nostro corpo digitale, per perseguire ora questo ora quel reato, o peggio per prevenirli? Tanto lì arriveremo,alla prevenzione, stante il grado di “trasparenza” che abbiamo acquisito.

Magari la risposta è sì; magari per perseguire gli evasori (e i terroristi e i truffatori e gli spacciatori e i dissidenti e poi…) arriveremo più che alle case di vetro, agli uomini di vetro. Però è di questo che stiamo parlando quando parliamo della lista Falciani. Nelle ordinanze che legittimano l’utilizzo di quei dati rubati, di tutto questo non c’è traccia.

Amen. Tanto ci sarà sempre una buona ragione per violare i nostri dati e gli evasori non son simpatici: che paghino loro. Oggi. Domani, ne son certo, ci saranno battaglie più facili da sostenere.

Carlo Blengino

Avvocato penalista, affronta nelle aule giudiziarie il diritto delle nuove tecnologie, le questioni di copyright e di data protection. È fellow del NEXA Center for Internet & Society del Politecnico di Torino. @CBlengio su Twitter