Cosa resta di Idlib

“La libertà non è più una Statua: è viva, in carne ed ossa”: dei sogni della rivoluzione siriana del 2011 resta poco più di questo graffito del collettivo Kesh Malek su un muro di Idlib, a poca distanza da dove il giorno di Capodanno l’artiglieria governativa ha bombardato una scuola uccidendo 9 persone tra cui cinque bambini; altri 5 sono morti ieri in modo del tutto analogo.

Teatro di crimini orrendi e impuniti (perfino le indagini dell’ONU sugli attacchi a strutture sanitarie o scolastiche, decine nel solo 2019, sono state ostacolate o tacitate dai veti russi), Idlib – oggi condannata a forzate evacuazioni di massa, dopo aver rappresentato l’estremo rifugio per centinaia di migliaia di ribelli provenienti da altre città e regioni del Paese – è quasi la metafora di un naufragio, militare e culturale: le illusioni tramontate, la radicalizzazione, i Russi tutori dell’ordine e padroni del campo.

Ne parla, in un quadro vasto e sconfortante ma documentato con sobria lucidità, il recente libro di Marcella Emiliani, Purgatorio arabo (Laterza 2020), vero vademecum per chi voglia capire a che punto siamo in Medio Oriente.

Non c’è solo il naufragio della comunità internazionale, che ormai in balía di Putin si è completamente dimenticata di questo sfregio, o al più se ne ricorda quando muore un bimbo. Il naufragio, dal 2012 ad oggi, ha travolto anzitutto le originali forme di autogestione politica sorte nei primi tempi, e messe a dura prova nei mesi delle bombe, dei massacri, degli attacchi chimici nella Ghouta, dei bimbi spauriti e dei cecchini senza pietà.

Di questa parabola narra il recente documentario “in presa diretta” di Said Al Batal e Ghiath Ayoub Still Recording, che trae il titolo da una macchina da presa amatoriale che “continua a registrare” anche mentre il cameraman giace a terra colpito da una pallottola: è quasi una cronaca, tutta al maschile, del disfarsi di un sogno, cronaca cruenta, certo, ma molto esplicita anche nel disegnare la traiettoria di speranze reali e deluse, annegate in un mare di armi e di esecuzioni sommarie pronte a lavare col sangue le scritte gioiose sui muri dell’università di Damasco.

Al femminile la stessa storia è declinata nel pluripremiato For Sama, ora sugli schermi italiani per il doppiaggio di Jasmine Trinca. Questo documentario, pieno di poesia e di sgomento, ha poco a che fare con i film arabi “da esportazione”, dove l’eroina senza macchia lotta a mani nude per l’emancipazione (così, solo per parlare dei più recenti e pure variamente pregevoli, il saudita The Perfect Candidate presentato all’ultima Mostra del cinema di Venezia, o l’algerino Papicha, in cui la creatività di una giovane stilista s’infrange contro l’integralismo nerovestito degli anni ‘90).

Come i dolenti racconti delle 19 donne siriane oggi in esilio raccolti dalla scrittrice Samar Yazbek (Sellerio 2019), For Sama incarna, dentro e fuori l’ospedale in cui ha luogo buona parte dell’azione, un ideale di società più laica, solidale e paritaria di quella dell’Islam armato che in varie salse impera tutto intorno. Ad Aleppo, la strenua resistenza di quell’ospedale libero nel cuore di una città bombardata per mesi dai jet di Mosca, e la caparbia decisione della moglie del giovane primario (la blogger Waad Al-Khateab, realizzatrice delle riprese insieme a Edward Watts) di non andare via fino all’ultimo, di dare alla luce una figlia proprio lì, dà un senso alla dinamica di vita (i successi e gli scoramenti, lo spirito e la morte) di una comunità prima euforica per l’insperata autonomia e poi piegata da un interminabile assedio.

Non è un caso che le scene finali, con la caduta e gli esili forzati del dicembre 2016, coincidano con i proclami di un soddisfatto Assad, secondo il quale “ad Aleppo si sta facendo la Storia” – quale Storia, appunto. Mostrando il dolore e l’odore del sangue ma anche l’eroismo della solidarietà al tempo dell’orrore, Waad Al-Khateab illustra un sogno di coesistenza, l’inesausta aspirazione al cambiamento che pervade ancora oggi (nelle piazze di Algeri, di Beirut, di Teheran, di Bagdad) una parte di molte società musulmane.

Per la protagonista di For Sama, come già per il tunisino Bouazizi che si dette fuoco a Sidi Bou Said nell’anacrusi delle primavere arabe (dicembre 2010), o per la giovanissima Amal che cresce in piazza Tahrir nell’omonimo documentario egiziano (Mohamad Siam, 2017), il centro di gravità è la rivendicazione della dignità (karama) contro l’oscurantismo, la discriminazione, la repressione, le élites corrotte.

Ma perfino all’interno di una nazione mediamente colta e progredita come quella siriana, e anche al netto del great game che ha precocemente travolto il Paese, la scommessa è stata infine perduta: una rivoluzione presto commissariata dagli islamisti, l’assenza di una classe dirigente all’altezza (troppi, nei decenni precedenti, gli esuli o gli incarcerati), l’incapacità di superare davvero l’ipoteca religiosa, l’impasse del sogno democratico nel crocevia tra il declinante modello occidentale e una “neo-democrazia islamica” tutta da inventare.

Il problema di fondo, all’altro capo della umma, lo ha denunciato Hélé Béji in uno sconsolato pamphlet incentrato sull’unico Paese dove la rivoluzione, sulla carta, ha vinto (Dommage, Tunisie, Gallimard 2019): i governi autoritari e repressivi dei Bourguiba, dei Mubarak, degli Assad e degli altri raís hanno rappresentato un argine contro l’estremismo religioso, mentre l’avventura “democratica”, assieme alle grandi speranze, ha purtroppo sdoganato quel sostrato di islam violento e radicale, talora disumano, che prima restava latente (e poco importa, qui, che tanti estremisti in Siria siano stati appositamente scarcerati dal cinico Assad per inquinare le file della rivoluzione).

Anche dove ha vinto, argomenta la Béji (e la più complessa e accademica analisi di Marcella Emiliani va in un senso analogo), la democrazia “non ha saputo disfarsi dei mandarini e ha finito per spalancare le porte all’islam, che si credeva in scacco”. Così, a dispetto dei segnali positivi, l’avvenire della Tunisia sembra ancora molto remoto da quanto si sognava nella breve primavera.

La Siria poteva essere un simbolo: vi si è giocata una partita forse decisiva, avvelenata certo dalle mosse di un tiranno spregiudicato e dagli appetiti di potenze lontane, ma contendibile. Tra le altre colpe di questi anni orribili per il Medio Oriente, nel lungo termine si ricorderà il rassegnato assenso di tanti alla distruzione violenta di esperimenti avanzati e quasi utopici di democrazia egualitaria come la “nuova Aleppo” di giustizia e libertà in cui apriva gli occhi la piccola Sama, o come – ancora oggi, mentre i riflettori si spostano sempre più lontano (e nei dintorni di Afrin si muore perché l’ospedale è troppo lontano) – lo stato libero dei Curdi del Rojava.

Filippomaria Pontani

Filologo classico a Venezia (Ca’ Foscari), mi occupo di greco da Omero a Kavafis, di manoscritti bizantini, di poesia, di lingua. Sul Post e sul Fatto quotidiano scrivo di scuola e università, di arte e patrimonio culturale, di Europa e Medio Oriente, di venetudine.