Errani è umano

La questione politica delle dimissioni di Vasco Errani da presidente della regione Emilia-Romagna rende palese il groviglio di contraddizioni in cui il PD e i suoi elettori si sono messi in anni di sbrigativi e categorici proclami sul rapporto con i processi, le sentenze, le condanne, e il sistema della Giustizia.
Come in molte questioni, le cose sono infatti molto più complicate di come vengono trattate per slogan, e quando riduci la complessità e la realtà a slogan, poi non puoi più fare i distinguo preziosi o affrontare in modo diverso contesti e temi diversi. Se hai detto fino a ieri – succube di scellerati e demagogie – che i condannati non devono mai più fare politica, e nemmeno gli indagati, come fai oggi a dire “aspettate, però dipende: c’è la presunzione di innocenza, e il primo grado lo ha assolto, e la sentenza è controversa, e lui è uno bravo, eccetera”?

Io credo che Errani abbia fatto bene a dimettersi, e credo sia stupido chiedergli di ritirare le dimissioni. Ha fatto bene per ragioni di correttezza, e ha ragione Marco Imarisio aspiegare che c’è anche un saggio calcolo di sopravvivenza politica: chi lo invita a ripensarci non fa il suo bene, ma probabilmente cerca un suo spazio in questo momentaneo spettacolo. Credo anche che nessuno sia indispensabile, e meno che mai un governatore in carica da 15 (15) anni, durata che una legge elusa ormai vieta.

Ma credo anche – io davvero – nella presunzione di innocenza fino a sentenza definitiva, e nella fallibilità della magistratura e dell’amministrazione della Giustizia. E quindi a chi dice che Errani era stato assolto in primo grado e questo suggerirebbe una minor solidità della sua condanna, ricorderei che questo vale anche per i condannati in primo grado o per i semplici indagati. O decidiamo che l’evento giudiziario più recente basta a creare un automatismo – di certo non una dichiarazione di colpevolezza, ma un’esclusione temporanea dai suoli pubblici – oppure decidiamo che ci vuole una condanna definitiva, e allora si aspetta sempre la Cassazione.

(Inciso: c’è un vecchio dibattito intorno alla possibilità di non permettere il ricorso in appello contro le assoluzioni in primo grado, che da sole dimostrerebbero la presenza di “un ragionevole dubbio” sulla condanna. Idea che mi pare molto corretta, e che purtroppo in Italia è ostacolata – oltre che da un esteso ringhioso giustizialismo – dall’argomento reale che dà per scontato che in Italia ci siano processi “manipolati” del tutto, e questo è disperante).

Oppure, terza ideale possibilità, decidiamo di smettere di ragionare per slogan e automatismi sulle vicende complesse e giudichiamo ogni situazione, accusa, condanna, per quello che è, le sue implicazioni ogni volta diverse, la sua sostanza ogni volta diversa, il suo contesto politico e giudiziario ogni volta diverso. Smettendo di creare regole per cui poi dobbiamo inventare eccezioni: che è un po’ la storia di questo paese. Certo, è un approccio che costringe a essere molto informati, e abbiamo tutti molto da fare e i media non ci aiutano.
Però allora evitiamo dichiarazioni perentorie e definitive ogni volta, che poi finiamo per contraddirci.

Luca Sofri

Giornalista e direttore del Post. Ha scritto per Vanity Fair, Wired, La Gazzetta dello Sport, Internazionale. Ha condotto Otto e mezzo su La7 e Condor su Radio Due. Per Rizzoli ha pubblicato Playlist (2008), Un grande paese (2011) e Notizie che non lo erano (2016).