L’Italia chiamò: «sì!», o no?
Nella prima versione dell'inno di Mameli il «sì!» non c'era: sul perché fu aggiunto c'è tutta una storia, ma oggi nelle occasioni ufficiali non bisogna dirlo

Il Fatto Quotidiano ha raccontato che lo Stato Maggiore della Difesa ha diffuso tra le varie forze armate italiane un documento in cui chiede che durante l’esecuzione della versione cantata dell’inno di Mameli non venga pronunciato il «sì!» finale, quello che chiude il ritornello dopo le parole «L’Italia chiamò» e che spesso si sente pronunciare con particolare intensità durante le manifestazioni sportive.
Il documento si rifà a un decreto che il presidente della Repubblica ha firmato a marzo e che è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 7 maggio, che richiama a sua volta l’articolo 1 della legge numero 181 del 4 dicembre 2017, in cui la Repubblica riconosce il testo di Mameli e lo spartito musicale originale di Michele Novaro quale proprio inno nazionale. Ma anche lo spartito originale contiene il testo dell’inno, e le due versioni differiscono proprio per un particolare: in una non è presente il «sì!» alla fine del ritornello, nell’altra sì (quella di Novaro, lo spartito con le note che hanno sotto il testo corrispondente). Dietro a questa differenza c’è tutta una storia che spiega come e perché quel «sì!» venne aggiunto solo in un secondo momento.
Il decreto del presidente della Repubblica dice in ogni caso di prendere in considerazione il testo originale senza il «sì!» (la formulazione del decreto per la verità non è chiarissima, ma è stato confermato che è così che dev’essere interpretata): da qui derivano le recenti indicazioni date dallo Stato Maggiore della Difesa. La presidenza della Repubblica ha fatto sapere al Fatto che la scelta della versione senza il «sì!» non ha nessuna ragione particolare, né tantomeno politica, ma ha a che fare solo con la volontà di aderire al testo originale.
Quello che è comunemente chiamato “Inno di Mameli” venne scritto a Genova nell’autunno del 1847 dall’allora ventenne Goffredo Mameli, studente e poeta repubblicano che aveva aderito al mazzinianesimo (cioè all’ideologia di Giuseppe Mazzini per cui l’Italia doveva essere liberata con la costituzione di uno stato repubblicano) e che morì nel 1849 a 21 anni per le conseguenze di un’infezione. Il testo di Mameli venne musicato poco dopo essere stato composto da un altro genovese, Michele Novaro.
Venne scelto il 12 ottobre del 1946 come inno nazionale provvisorio della Repubblica e riconosciuto definitivamente con la legge numero 181 del 2017. Il testo completo è fatto da sei strofe, più il ritornello (quello che inizia con «stringiamci a coorte» e che finisce appunto con «chiamò»), ma nella versione che si suona o si canta nelle cerimonie ufficiali è previsto che si esegua solo la prima strofa e il ritornello per due volte consecutive.
Secondo le ricostruzioni storiche l’inno fu eseguito per la prima volta a Genova il 9 novembre del 1847 durante una manifestazione patriottica, ma non sappiamo su quali note: non quelle attuali, dato che Novaro cominciò a occuparsene solo il mese successivo. Massimo Castoldi, autore del libro L’Italia s’è desta (edito da Donzelli) ritiene molto probabile che il testo di Mameli accompagnato dalla musica di Novaro abbia esordito a Genova il 10 dicembre 1847, e sempre durante una manifestazione patriottica.
Al Museo del Risorgimento Istituto Mazziniano di Genova è conservato il manoscritto autografo della prima stesura della poesia di Mameli, e un foglio volante con il testo a stampa corredato da annotazioni autografe dell’autore. Questi documenti non hanno una data precisa, ma sono sicuramente della fine del 1847. Ha invece una data precisa, 10 novembre del 1847, il testo autografo conservato presso il Museo Nazionale del Risorgimento di Torino, che è anche quello che Mameli inviò a Novaro affinché lo musicasse. Al di là di alcune varianti e lacune tra le versioni in questi manoscritti firmati da Mameli, c’è un dato che emerge: il «sì!» finale non compare (nella foto sotto bisogna guardare la prima colonna a sinistra: all’undicesima riga il ritornello finisce semplicemente con «chiamò»).

Il testo autografo di Mameli conservato a Torino, datato «Genova 10 novembre 1847» (sulla destra, sopra l’ultima strofa) e intitolato «Canto Nazionale» (fonte: Edizione critica a cura di Maurizio Benedetti pubblicata dalle Edizioni del conservatorio Giuseppe Verdi di Torino nel 2019).
Le partiture autografe di Novaro oggi reperibili sono invece tre: il manoscritto custodito presso l’Istituto Mazziniano di Genova, il manoscritto conservato al Museo Nazionale del Risorgimento Italiano di Torino e infine il manoscritto inviato da Novaro all’editore Francesco Lucca il 27 ottobre del 1859 per la pubblicazione di una seconda edizione a stampa dopo la prima dell’editore Magrini.
Nel comporre le partiture Novaro intervenne anche sul testo della poesia di Mameli: sostituì innanzitutto “Canto Nazionale” con “Inno Nazionale” come indicazione del genere musicale, e inventò il nuovo titolo: “Il Canto degli Italiani”. Ma intervenne leggermente anche su alcuni versi, probabilmente per rendere le parole più adatte a essere cantate. E poi aggiunse il «sì!» alla fine, che dunque non apparteneva al componimento originale e che negli spartiti di Novaro compare invece seguito da un punto oppure da un punto esclamativo (nella foto sotto bisogna guardare il testo nelle prime due righe della partitura: in entrambe compare il «sì!»).

Foglio finale della partitura di Novaro conservata a Genova e databile al 1849 pur recando la data del 5 dicembre 1847, a causa di un’annotazione su Mameli che dice «ucciso dai Francesi combattendo per la libertà Italiana a Roma», in cui Novaro ricorda la fine del poeta nella difesa della Repubblica Romana avvenuta il 6 luglio del 1849 (fonte: Edizione critica a cura di Maurizio Benedetti pubblicata dalle Edizioni del conservatorio Giuseppe Verdi di Torino nel 2019).
Nell’edizione critica al “Canto degli Italiani” a cura di Maurizio Benedetti e pubblicata dalle Edizioni del conservatorio Giuseppe Verdi di Torino nel 2019 si dice che nelle intenzioni di Novaro l’inno si dovesse concludere con il cosiddetto “effetto rossiniano”, un crescendo tipico dello stile di Gioachino Rossini che doveva generare in chi ascoltava un’emozione e un coinvolgimento sempre più intensi fino all’esplosione del finale. In I miei tempi, l’autobiografia di Vittorio Bersezio, giornalista, scrittore e poi deputato piemontese, c’è un capitolo dedicato alla cronaca fatta dallo stesso Novaro nella sua casa torinese sulla nascita dell’inno.
A Bersezio e agli altri amici presenti, Novaro avrebbe detto: «L’entusiasmo li manda a un crescendo incalzante che si conchiude in un grido supremo, il quale è un giuramento e un grido di guerra. E il poeta mi perdonerà se, per mandare questo grido, ho aggiunto all’ultimo verso una sillaba: “l’Italia chiamò: Sì!”».

La partitura autografa di Novaro conservata a Torino, con il «sì!» finale. È un documento di incerta datazione (fonte: Edizione critica a cura di Maurizio Benedetti pubblicata dalle Edizioni del conservatorio Giuseppe Verdi di Torino nel 2019).
Sul sito del Quirinale il testo dell’inno si conclude senza il «sì!», mentre sul sito del governo sono riportate entrambe le versioni: la copia digitale degli autografi dello spartito musicale di Michele Novaro e quella del testo del “Canto degli Italiani” di Goffredo Mameli.



