Capiamo questa legge di bilancio una volta per tutte
Ora che finalmente non dovrebbe più cambiare: cosa è stato confermato, cosa no, e come dobbiamo interpretarla

Lunedì l’aula del Senato ha iniziato la discussione della legge di bilancio, che verrà approvata martedì per poi essere inviata alla Camera, che avrà un paio di giorni per esaminarla e approvarla in via definitiva senza poterla modificare in alcun modo. Come sempre, e forse più del solito in questo caso, l’iter di approvazione è stato caotico e tribolato, e quest’anno più che in altri anni la confusione ha generato grosse tensioni all’interno della stessa maggioranza. Nel clamore delle polemiche, come spesso capita, si è poi finito per concentrarsi su singole misure particolarmente contestate dalle opposizioni o su singoli errori commessi dal governo, e si è perso un po’ il quadro d’insieme.
È una legge di bilancio estremamente accorta per quel che riguarda la tenuta dei conti pubblici, ma che difetta in modo sostanziale di interventi che sostengano la crescita e gli investimenti. Lo stesso governo ha di fatto ammesso questo limite, e infatti ha provato, con un atto piuttosto irrituale, a riscrivere una parte importante della finanziaria a poche ore dalla sua approvazione, proprio per garantire maggiori risorse alle imprese. Ma questo intervento ha colmato solo in parte le lacune del provvedimento.
– Leggi anche: Nella legge di bilancio del governo c’è molta prudenza e poco altro
La legge di bilancio approvata dal Consiglio dei ministri il 17 ottobre valeva poco più di 18,5 miliardi. Un impegno molto modesto, tra i più contenuti degli ultimi decenni. Di per sé, questa limitatezza di risorse non è un bene o un male, ma dà certamente l’idea di un approccio estremamente conservativo da parte del governo. Lo stesso ministero dell’Economia confermava questa lettura, certificando che l’effetto che le misure inserite in manovra avrebbero prodotto sulla crescita del prodotto interno lordo (pil) era sostanzialmente nullo per il 2026. È un po’ come se il governo ammettesse che questa manovra non darà alcuno stimolo particolare all’economia del paese.

Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti con la presidente del Consiglio Giorgia Meloni alla Camera, il 22 ottobre 2025 (Mauro Scrobogna/LaPresse)
Per certi versi, questo approccio estremamente attento alla spesa pubblica e alla riduzione del disavanzo annuale (il deficit) è la caratteristica principale del governo di Giorgia Meloni sin da quando si è insediato: da questo punto di vista la legge di bilancio è in continuità con le tre precedenti. Stavolta, peraltro, c’è un obiettivo chiaro che ha indotto il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti a essere ancor più oculato: la volontà di uscire dalla procedura per deficit eccessivo che la Commissione Europea ha aperto nei confronti dell’Italia nel giugno del 2024. Per questo il governo ha previsto un deficit non superiore al 3 per cento del pil (che è un po’ il limite consentito dall’Unione Europea) per il 2025, e in calo nell’anno seguente fino al 2,8 per cento.
Per Giorgetti questo risultato ha un grande valore politico e simbolico. Offrirà agli investitori internazionali un’immagine dell’Italia come un paese solido e responsabile sul piano finanziario, e questa buona reputazione potrà produrre effetti positivi sull’economia. Una volta usciti dalla procedura, verosimilmente in primavera, il governo intende attivare il programma SAFE per la spesa militare: 14,9 miliardi di euro di prestiti europei a tassi particolarmente vantaggiosi, che si confida avranno un buon effetto sugli investimenti del settore industriale e sull’occupazione.
Inoltre, aver impostato una legge di bilancio così austera per il 2026 consentirà molto probabilmente di avere margini di spesa maggiori per la manovra del 2027, quella che il governo dovrà approvare a dicembre prossimo, pochi mesi prima delle elezioni politiche e quindi in mezzo alla campagna elettorale.
Se la prudenza nella gestione delle finanze pubbliche è fin dall’inizio un tratto distintivo del governo, quest’anno invece c’è stato un cambio di prospettiva negli obiettivi di spesa. Per i tre anni precedenti Meloni e Giorgetti avevano utilizzato in vario modo le poche risorse a disposizione per favorire il ceto medio-basso, specie i lavoratori dipendenti con redditi non superiori ai 30mila euro annui circa.
Stavolta hanno privilegiato invece una categoria un po’ più benestante, quella che guadagna tra i 28 e i 50mila euro: la principale misura della legge di bilancio consiste infatti nella riduzione di due punti dell’aliquota IRPEF corrispondente. Al contempo viene rinnovata la cosiddetta rottamazione fiscale, arrivata alla sua quinta versione: è una sorta di sanatoria che consente a chi è moroso col fisco di regolarizzare la propria situazione a condizioni agevolate, ed è per certi aspetti assimilabile a un condono.
Ci sono poi sgravi fiscali sull’aumento degli stipendi dovuto al rinnovo dei contratti collettivi, un rifinanziamento del fondo sanitario nazionale che però non modifica la spesa per la sanità in rapporto al pil, e alcune contenute agevolazioni fiscali per le famiglie più numerose per quanto riguarda il calcolo dell’ISEE, l’indicatore che certifica la condizione economica delle famiglie, da cui viene peraltro esclusa la prima casa (entro un certo valore).
Nel complesso sono interventi di portata modesta. Ma nella prima versione della manovra erano ancora più inconsistenti le misure a sostegno delle imprese. Meloni si era compiaciuta di aver concesso agli industriali gli 8 miliardi di euro che erano stati richiesti da Confindustria (che era già meno di un terzo di quelli che la presidente del Consiglio aveva promesso lo scorso aprile): ma Confindustria li chiedeva per il solo 2026, mentre la legge di bilancio li distribuiva in tre anni. La delusione degli imprenditori è aumentata ancor più dopo che il governo, in particolare col ministro delle Imprese Adolfo Urso, aveva gestito in modo alquanto fallimentare la principale misura pensata per incentivare gli investimenti, e cioè Transizione 5.0.

Claudio Borghi, senatore della Lega, è stato uno dei principali oppositori del ministro Giorgetti, del suo stesso partito (Mauro Scrobogna/LaPresse)
I partiti della destra hanno dapprima rigettato queste critiche; poi però, per volontà della stessa Meloni, il 15 dicembre il governo ha presentato, all’ultimo momento utile, un cosiddetto “maxiemendamento” che di fatto aggiungeva circa 3,5 miliardi in più proprio per le imprese.
La decisione è stata accompagnata da enormi polemiche all’interno della stessa maggioranza e in particolare nella Lega di Matteo Salvini: i senatori leghisti hanno contestato a Giorgetti, che è del loro stesso partito, di aver finanziato quegli interventi aggiuntivi aumentando l’età pensionabile, contraddicendo una storica battaglia leghista. Dopo giorni di intense polemiche, di malintesi e di ripensamenti, alla fine quei 3,5 miliardi sono stati confermati, ma si è deciso di finanziarli in altro modo. Ed ecco, dunque, le agevolazioni fiscali per la Zona economica speciale del Sud, un fondo per mitigare i rincari dei materiali di costruzione negli appalti pubblici, e il rifinanziamento per Transizione 5.0 e Transizione 4.0, sia pure con vincoli più stringenti.
Quanto alle entrate, cioè ai modi con cui il governo coprirà queste spese, un grosso contributo è ricavato dalle nuove tasse sulle banche e sulle assicurazioni, da cui il governo conta di ottenere circa 12 miliardi nei prossimi tre anni; circa 5 miliardi dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), che viene modificato per finanziare spese finora coperte da risorse nazionali; vengono poi ridotte le spese dei ministeri, rinviati alcuni investimenti sulle infrastrutture (compresi circa 780 milioni di euro per il ponte sullo Stretto di Messina), ridotti di circa 600 milioni i fondi per ricerca, istruzione e cultura, di circa mezzo miliardo i fondi di Sviluppo e coesione per finanziare i programmi europei per le regioni più disagiate nei prossimi tre anni, e ridotti gli incentivi per il pensionamento anticipato dei lavoratori precoci o di quelli impegnati in professioni usuranti.
Vengono inoltre introdotte o aumentate varie tasse: entra in vigore quella da 2 euro per ogni pacco del valore non superiore a 150 euro ricevuto da paesi al di fuori dell’Unione Europea; viene raddoppiata (dallo 0,02 allo 0,04 per cento) quella sulle transazioni finanziarie (la cosiddetta “Tobin Tax”), per ottenere un maggior gettito di circa 340 milioni di euro; aumentano inoltre le accise sul tabacco per circa 600 milioni di euro, e quelle sul gasolio; anche sugli affitti brevi è previsto un aumento delle imposte per i proprietari, anche se più contenuto rispetto a quello inizialmente previsto.
Si conferma inoltre una tendenza piuttosto bizzarra del governo Meloni: quella di contraddirsi da un anno all’altro. È stato così sulla riduzione dell’IVA per i prodotti dell’infanzia, introdotta nel 2023 e poi eliminata nel 2024; è stato così col canone Rai, portato da 90 a 70 euro nel 2024 e poi rialzato da 70 a 90 euro nel 2025; la decontribuzione per le lavoratrici inserita nel 2024 e poi modificata radicalmente, e drasticamente ridotta, nel 2025. Stavolta sono le misure legate alla previdenza complementare – il meccanismo per cui si possono usare i propri fondi pensione per raggiungere anticipatamente i requisiti contributivi per andare in pensione – a subire lo stesso trattamento: inserite nel 2025, vengono annullate per il 2026.



