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  • Martedì 9 dicembre 2025

In India c’è un mondo dietro ai sussidi per il lavoro domestico

Li ricevono più di 100 milioni di donne in 12 stati: funzionano e aumentano l'indipendenza, ma sono anche strumentalizzati dalla politica

Una casa nello slum di Allahabad, nello stato indiano dell'Uttar Pradesh (AP Photo/Rajesh Kumar Singh)
Una casa nello slum di Allahabad, nello stato indiano dell'Uttar Pradesh (AP Photo/Rajesh Kumar Singh)
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In India circa 118 milioni di donne adulte, quasi un quinto del totale, ricevono dai governi di 12 stati dei sussidi in denaro: sono una forma di pagamento per il lavoro domestico, che nel paese ricade quasi totalmente sulle donne, anche più che altrove. I sussidi hanno effetti positivi, perché contribuiscono a migliorare condizioni, indipendenza e status delle donne indiane. Allo stesso tempo sono un potente strumento elettorale sfruttato dai politici per assicurarsi il voto femminile, spesso decisivo: in alcuni casi sono stati introdotti o modificati alla vigilia delle elezioni, tra varie polemiche.

L’India è uno stato federale in cui i governi dei vari stati hanno ampi poteri. Una forma di pagamento per il lavoro domestico delle donne fu introdotta per la prima volta nel 2013 dal governo di Goa, il più piccolo stato indiano, ex colonia portoghese. Iniziative simili si sono diffuse nel 2020, dopo la pandemia da coronavirus: iniziò l’Assam, stato del nord-est, seguito dal Bengala Occidentale; tra il 2024 e il 2025 si arrivò a 12 e almeno altri cinque stanno considerando di introdurli.

Le misure sono proposte da partiti di tutti gli orientamenti politici. In alcuni casi la motivazione dei sussidi è implicita, in altri sono presentati esplicitamente come un riconoscimento del lavoro domestico svolto delle donne: un’indagine del governo indiano sull’impiego del tempo nel 2024 lo ha stimato in cinque ore al giorno, quasi otto volte più degli uomini.

Un terrazzo della città di Varanasi (Frédéric Soltan/Corbis via Getty Images)

I sussidi vengono distribuiti perlopiù “a pioggia” e non prevedono particolari requisiti o condizioni, a differenza di altri paesi in cui sono legati a criteri come un comprovato stato di povertà o l’obbligo di frequenza scolastica per i figli.

Le cifre distribuite vanno da 1.000 a 2.500 rupie al mese (10-25 euro circa): valgono circa il 10-15 per cento del bilancio familiare medio, e possono essere particolarmente importanti per le famiglie più povere. Vari studi evidenziano che il denaro viene speso soprattutto per le necessità familiari: cibo, spese mediche e per la scuola dei figli, gas per cucinare, saldo di piccoli debiti, più raramente acquisti personali. Disporre di quel denaro per molte donne significa anche ottenere una parziale indipendenza economica dagli uomini (mariti, padri, fratelli), a cui altrimenti spesso devono rivolgersi anche per le spese più piccole.

Donne al voto in Kashmir, nel maggio del 2024 (AP Photo/Dar Yasin)

I sussidi alle donne sono stati al centro della campagna elettorale anche nell’ultimo stato in cui si è votato, il Bihar, il secondo più popoloso e uno dei più poveri dell’India. Alcune settimane prima delle elezioni 7,5 milioni di donne hanno ricevuto sui loro conti bancari 10mila rupie, il corrispondente di poco meno di 100 euro, per un programma sociale. È una cifra importante, ma anche una misura una tantum, a cui si affiancava il progetto di istituire un pagamento mensile fisso, sul modello di quello già attivato in altri stati. Le donne sono andate a votare più che gli uomini (un dato non scontato in India) e hanno contribuito alla vittoria del partito già al governo e della coalizione guidata dal Bharatiya Janata Party, quello del primo ministro (federale) Narendra Modi.

È un esempio di come i sussidi funzionino anche da strumento elettorale, tanto che i critici hanno definito queste misure come dei tentativi palesi di comprare voti, peraltro piuttosto efficaci: nel 2024 hanno contribuito alla vittoria dei partiti che li hanno proposti con più vigore in Maharashtra, Jharkhand, Odisha, Haryana e Andhra Pradesh e sono stati al centro anche della campagna elettorale per il governo della capitale Delhi.

I sussidi rischiano però di diventare una spesa eccessiva, anche perché metà degli stati che li prevedono ha già bilanci in deficit, ossia spendono più di quanto incassano. Nell’anno fiscale 2025 (che va da marzo del 2025 a marzo del 2026) gli stati spenderanno complessivamente più di 15 miliardi di euro nei soli sussidi alle donne, pari più dello 0,5 per cento del Prodotto Interno Lordo dell’intera India. In generale secondo i critici queste distribuzioni di denaro rischiano di assorbire troppe risorse e sostituire ogni altra politica sociale.

Altre critiche riguardano un atteggiamento definito «paternalistico» di molte delle misure e delle campagne di comunicazione degli stati indiani: i sussidi alle donne hanno nomi come “Mia cara sorella” o “Lakshmi” (il nome della dea indù dell’abbondanza e del denaro), e spesso sono accompagnati da dichiarazioni che li descrivono più come un favore che come un riconoscimento. I sussidi non risolvono poi il grande problema dell’accesso al lavoro delle donne indiane, che resta molto basso.

Due donne aspettano un bus a New Delhi nel 2015 (AP Photo /Tsering Topgyal)

Nonostante questo, restano per la maggior parte di chi li riceve uno strumento apprezzato ed efficiente, anche perché elimina ogni intermediario e ogni burocrazia. Dal 2014 il governo indiano ha lanciato il programma Pradhan Mantri Jan Dhan Yojana (PMJDY, letteralmente Piano del primo ministro per la ricchezza del popolo), che aveva l’obiettivo di garantire a ogni cittadino e cittadina l’accesso ai servizi bancari di base. Di fatto permetteva a chiunque non avesse un conto corrente di aprirne uno senza spese e senza depositi minimi (può restare anche a zero), con una carta di credito e un’assicurazione integrata. Furono aperti milioni di nuovi conti, soprattutto nelle aree rurali meno raggiunte dal sistema bancario tradizionale. Ora i sussidi arrivano direttamente su questi conti, spesso indicando come mittente il nome del capo del governo nazionale o locale (in un’efficace operazione di marketing politico).

Il sistema bancario PMJDY si inserisce nei più ampi programmi di identità digitale (chiamato Aadhaar) e di pagamenti digitali (chiamato UPI): ogni indiano ha un documento digitale che comprende un codice di dodici cifre associato alla foto, alle impronte digitali e alle immagini dell’iride; quasi ogni pagamento, anche quelli minimi, possono essere realizzati attraverso il telefono e un’app. Tutto ciò permette alla popolazione di accedere facilmente a una serie di servizi, ma crea anche un enorme database completamente nelle mani del governo indiano, che può potenzialmente controllare ogni aspetto della vita dei cittadini, anche tracciando ogni acquisto o pagamento.

I pagamenti alle donne sono peraltro solo uno dei molti sussidi previsti dal governo federale e da quelli statali indiani, che riguardano spesso il settore dell’agricoltura: rispondono a reali esigenze in una nazione in cui le disparità sono enormi e la povertà diffusa, ma rappresentano anche consolidati strumenti di creazione del consenso e di bacini elettorali fedeli.