L’antica fissa della destra italiana per le riserve auree
Un emendamento alla legge di bilancio ha fatto riemergere l'idea per cui l'oro debba tornare al «popolo italiano», come se non fosse già così

Tra gli emendamenti al disegno di legge di bilancio in discussione in parlamento, il provvedimento che deve essere approvato entro la fine dell’anno e che stabilisce come cambierà il bilancio dello Stato nel 2026, ce n’è uno piuttosto bizzarro proposto dal senatore di Fratelli d’Italia Lucio Malan, che dice: «Le riserve auree gestite e detenute dalla Banca d’Italia appartengono allo Stato, in nome del popolo italiano».
È un emendamento dal significato simbolico e politico, perché di fatto l’oro è già dello Stato italiano e a disposizione per gli interessi della popolazione italiana: la Banca d’Italia del resto non è un ente pirata, ma a tutti gli effetti un’istituzione pubblica, benché indipendente dalla politica. Il punto però è proprio questo: da tempo la destra italiana sostiene che le riserve d’oro italiane debbano essere nelle disponibilità del governo, e non della Banca d’Italia, perché a suo dire in estrema sintesi il governo di un paese rappresenta in maniera più compiuta il «popolo italiano» rispetto a un organismo non eletto.
Se potesse davvero spendere le riserve auree dello Stato italiano, il governo potrebbe teoricamente impiegarle per abbassare le tasse, o per costruire il ponte sullo Stretto, oppure misure specifiche contro la povertà. L’emendamento proposto da Malan non si spinge fino a quel punto, ma ribadirlo in questo modo suggerisce velatamente che questa sia la posizione del principale partito della maggioranza di governo, nonostante gran parte degli economisti la consideri una pessima idea.
Da una parte c’è proprio un’insensatezza economica: vendere parte del patrimonio pubblico per finanziare misure estemporanee decise da un certo governo è l’equivalente di una famiglia che vende la sua casa per fare la spesa o per le vacanze. Oltretutto la liquidazione delle riserve auree – «l’argenteria di famiglia», una definizione molto efficace che ne dette qualche anno fa un importante dirigente della Banca d’Italia – darebbe il segnale di un governo sulla soglia della disperazione, disposto a tutto pur di raggranellare un po’ di soldi.
Dall’altra si aprirebbe uno scontro istituzionale perché significherebbe rinnegare l’indipendenza delle banche centrali, che nella loro concezione moderna sono indipendenti dalla politica proprio a salvaguardia dell’intera economia e dalle decisioni di un singolo governo o ministro. In un passato nemmeno troppo lontano peraltro la politica italiana ha usato la Banca d’Italia per finanziare enormi aumenti di spesa pubblica facendole stampare nuova moneta, alimentando così il debito pubblico, la svalutazione della stessa moneta, e l’inflazione (cosa che ancora fanno diversi paesi emergenti). Da quando la Banca d’Italia ha ceduto buona parte delle sue funzioni alla Banca Centrale Europea (BCE), questo non è più possibile.

Il governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta con la presidente del Consiglio Giorgia Meloni (Filippo Attili/Palazzo Chigi/LaPresse)
L’indipendenza delle banche centrali è ormai riconosciuta come un pilastro e un valore delle economie occidentali, a garanzia di maggiore stabilità. La Banca d’Italia, per statuto, è completamente indipendente dal governo e dal parlamento: nessuno dei due insomma può obbligarla a cedere il controllo delle sue riserve di oro.
Le riserve auree servono nei momenti di incertezza e crisi finanziarie, quando il valore di quasi tutti gli strumenti finanziari crolla: l’oro è un bene rifugio, e in questi casi acquista valore a fronte della grande domanda da parte di chi cerca un investimento sicuro. In queste occasioni le riserve d’oro delle banche centrali – insieme a quelle detenute in valuta straniera – possono servire qualora le cose dovessero mettersi male: un esempio classico è quello per cui la banca centrale deve difendere il valore della valuta che rappresenta, e quindi deve comprarne in grande quantità.
L’oro è quindi una sorta di garanzia della stabilità finanziaria di un paese – più ne ha, più può far fronte facilmente a crisi valutarie – e le banche centrali di tutto il mondo detengono complessivamente un quinto di tutto l’oro esistente. La Banca d’Italia è la terza banca centrale al mondo per dimensione della sua riserva d’oro fisico, dopo Stati Uniti e Germania; è pari a 2.452 tonnellate, per un valore complessivo iscritto a bilancio di quasi 200 miliardi di euro (ma il cui valore di mercato è arrivato a 280 miliardi, col prezzo dell’oro in continuo aumento).
In questo senso già oggi sono una risorsa non solo a servizio del popolo italiano, ma di tutti quei paesi che aderiscono all’euro, dato che la Banca d’Italia fa parte del sistema della moneta unica: significa che è sottoposta non solo alla supervisione della BCE, ma anche ai trattati europei, che sono al di sopra delle leggi nazionali e che proibiscono alle banche centrali dei paesi dell’Unione di finanziare direttamente gli stati membri (e trasferire l’oro sarebbe a tutti gli effetti un finanziamento).
L’emendamento è in contrasto con i trattati europei e con lo statuto del Sistema Europeo delle Banche Centrali, il cosiddetto SEBC. L’articolo 127 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea obbliga gli stati membri a consultare la BCE in caso di interventi in materie che la riguardano: l’oro è sicuramente tra queste, e la BCE ha fatto sapere di non essere stata consultata.
In tutta Europa i partiti più euroscettici soffrono molto i vincoli fra le banche centrali nazionali e la BCE: non è un caso che questa idea di riportare l’oro a disposizione dei governi fosse centrale nei programmi di partiti ed esponenti un tempo favorevoli all’uscita dell’Italia dall’Unione Europea e dall’euro, come la Lega e Fratelli d’Italia. Tra i suoi più ferventi sostenitori c’erano per esempio i leghisti Claudio Borghi e Alberto Bagnai, firmatari di diverse iniziative legislative piuttosto bislacche, e nel suo lungo passato da combattiva deputata di opposizione la stessa Giorgia Meloni ha parlato spesso delle riserve d’oro italiane e della necessità di usarlo per i programmi di spesa.
Erano però altri tempi, e almeno sulla carta i due partiti avevano abbandonato da anni queste battaglie, soprattutto ora che sono al governo. Meloni ha un buon rapporto con le istituzioni europee, ed è quindi poco chiaro anche il senso politico dell’emendamento presentato dal suo stesso partito. Che oltretutto la pone in un possibile scontro istituzionale non solo con la Banca Centrale Europea, ma anche col presidente della Repubblica, che deve sorvegliare sulla conformità delle leggi ai trattati europei (con cui, va detto, i rapporti sono già piuttosto compromessi).
L’emendamento non è neanche stato bloccato nella consueta opera di selezione da parte della commissione Bilancio delle migliaia depositate dai parlamentari, e anzi è stato dichiarato ammissibile. Nelle prossime settimane sarà quindi discusso.
– Leggi anche: Che fare con le riserve d’oro italiane che sono negli Stati Uniti



