Dopo 19 anni, in India 19 omicidi sono di nuovo irrisolti
I resti furono trovati nel 2006 in un sobborgo di Delhi: seguirono accuse di cannibalismo e necrofilia, ma l’uomo indicato come colpevole è stato assolto

A metà novembre la Corte Suprema indiana ha ordinato il rilascio di Surinder Koli, quasi 19 anni dopo il suo arresto. Era stato accusato di 19 omicidi, condannato per 13 e poi assolto per tutti tranne uno: ora è stato ribaltato anche quell’ultimo verdetto di colpevolezza. Il caso è quello degli omicidi di Nithari (indicati anche come “di Noida”), di cui sui media indiani si parla parecchio da quasi vent’anni.
I fatti avvennero nel 2006; Nithari si trova nello stato dell’Uttar Pradesh, nel nord dell’India. Dopo mesi di denunce di sparizioni di bambini e ragazze nel quartiere, perlopiù ignorate dalla polizia, intorno a una casa furono trovati i resti di decine di persone. Furono arrestati il proprietario della casa e il suo domestico: nei mesi seguenti si parlò di stupri, cannibalismo, necrofilia e traffico di organi, i media riportarono ogni voce e diceria e contribuirono a rappresentare gli indagati come “mostri”.
Il domestico Surinder Koli confessò una serie di omicidi: anni dopo emerse che quelle confessioni furono estorte, anche con la tortura. Le condanne non si basavano su alcuna altra prova.

L’immagine di un video dell’epoca in cui le famiglie mostrano le foto degli scomparsi (YouTube)
Nithari è un sobborgo orientale della capitale New Delhi. Intorno ci sono molti slums, quelle che in italiano chiamiamo baraccopoli: sono quartieri sorti in modo informale e illegale, ma che nel tempo sono diventati strutturati e possono avere la popolazione di una città italiana di medie dimensioni. Il caso iniziò quando nel dicembre del 2006 due famiglie andarono dalla polizia dicendo di sapere dove si trovavano i corpi dei loro figli, di cui avevano denunciato la scomparsa, senza che la polizia avesse aperto reali indagini. Indicarono una casa della zona, intorno a cui avevano già iniziato a scavare.
Intorno all’abitazione, chiamata “Bungalow D-5”, si radunò una folla e furono ritrovate decine di teschi e ossa. La polizia inizialmente non fece nulla per arginare l’arrivo di persone: in molti si mossero e scavarono senza controlli, compromettendo possibili prove.
Emerse presto che da mesi genitori e parenti denunciavano la scomparsa di bambini e ragazze nella zona, e in particolare vicino a quella casa. Appartenevano tutti alle classi sociali più povere e alle caste più umili (le caste, frutto di una rigida divisione sociale sviluppatasi con l’induismo in quasi 3.000 anni, per secoli hanno condizionato ogni aspetto della vita religiosa e sociale indù. Oggi sono formalmente abolite, ma sopravvivono e restano rilevanti nel paese).
La polizia non aveva raccolto quelle denunce, accusando i genitori di non saper badare ai loro figli o sostenendo che le ragazze potessero essere «scappate con un innamorato». Dissero quest’ultima cosa anche a Jhabbu Lal Kanauji, che aveva denunciato la sparizione della figlia di otto anni.
Quando si diffuse la notizia del ritrovamento dei primi teschi, la folla attaccò una stazione di polizia locale. In seguito sei poliziotti vennero sospesi e due trasferiti.

L’immagine di un video dell’epoca degli scavi per cercare i corpi (YouTube)
Poco dopo la scoperta furono arrestati il proprietario della casa, Moninder Singh Pandher, e il suo domestico Koli: entrambi vennero indicati subito come colpevoli, accusati di aver rapito, stuprato e ucciso più di dieci bambini e una ragazza 22enne, smembrandone poi i corpi. Le attenzioni si concentrarono soprattutto su Koli, che apparteneva alla casta dalit, la più bassa, e che venne indicato come il principale autore degli omicidi. In quei giorni e nei mesi successivi il caso assunse una dimensione nazionale, attirando enormi attenzioni.
Dettagli non confermati e teorie cospirative furono diffuse da media anche molto noti in India: l’assenza di torsi fra i resti ritrovati fece parlare di cannibalismo e dell’ipotesi di un traffico di organi. Quest’ultima divenne molto popolare, nonostante non ci fossero reali elementi per corroborarla: si parlò di tagli «professionali» su alcuni dei corpi e di un medico vicino di casa già processato e assolto per accuse simili. Ma elementi reali e voci incontrollate si mescolarono, e il numero dei possibili morti e scomparsi nelle prime settimane variò molto. La polizia inizialmente parlò di 31, poi si concluse che i teschi erano complessivamente 19, e in 13 casi l’esame del DNA permise di identificare i morti: 11 erano bambini sotto i dieci anni.
Sulla base della confessione di Koli, ottenuta dopo 60 giorni di detenzione e – secondo sentenze successive – suggerita dagli inquirenti, partì una serie di processi: Singh Pander fu condannato a morte per due omicidi, Koli per 13. Per i decenni successivi restarono in attesa di esecuzione (quella di Koli fu vicina a essere eseguita nel 2014), poi cominciarono le revisioni dei processi.
Nel 2023 Singh Pander fu dichiarato innocente per due delitti per cui era imputato, Koli fu assolto per 12 su 13: in tutti i casi le prime condanne erano arrivate senza che fosse chiaro come i due avevano interagito, senza alcuna prova a parte la confessione e tralasciando ogni altra pista investigativa. Il 12 novembre scorso la Corte Suprema ha annullato anche l’ultima condanna, Koli è stato liberato e tutti gli omicidi sono tornati a non avere alcun colpevole.
Dopo la definitiva assoluzione l’avvocato di Koli ha denunciato che alcune prove per condannarlo fossero state «fabbricate», mentre varie inchieste giornalistiche hanno sottolineato come il domestico fosse stato individuato come “colpevole perfetto”. In India i rappresentanti delle minoranze religiose, gli adivasi (abitanti originari) e gli appartenenti alle caste più umili sono molto più spesso oggetto di condanne e di errori giudiziari. Uno studio condotto fra il 1998 e il 2014 evidenziò che in proporzione molti più detenuti appartenevano a queste fasce della popolazione, come risultato di discriminazioni e minore accesso alla tutela legale.
Gli omicidi di Nithari sono quindi tornati a non avere un colpevole: le famiglie potrebbero appellarsi alla Corte Suprema perché ordini nuove indagini, ma dopo quasi vent’anni è assai improbabile che emergano nuove prove o nuovi filoni d’indagine.



