È sparito il decreto “Energia”
Lo attendono da mesi le aziende del settore, ma c'è uno stallo politico e giuridico insieme, e intanto il ministro competente contraddice se stesso

Da quasi sei mesi si attende l’approvazione di un decreto per contenere i prezzi dell’energia, e che regolamenti alcuni aspetti del settore. Il governo lo aveva promesso per la prima volta a metà maggio, poi di nuovo a giugno. A luglio sembrava tutto pronto. Invece il 30 del mese, nell’ultimo Consiglio dei ministri prima della pausa estiva, si decise a sorpresa di rinviarne l’approvazione alla fine delle vacanze. Nel frattempo la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha più volte ribadito l’impegno del governo riguardo ai prezzi dell’energia. Lo ha fatto al Meeting di Rimini, a fine agosto. Poi di nuovo a fine settembre durante un incontro con la stampa a New York.
Tuttavia il decreto ancora non c’è e questo ritardo, oltre a generare malcontento nelle aziende del settore, rischia di causare problemi anche con l’Unione Europea e con l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR).
I motivi dello stallo sono tecnici, giuridici e politici insieme: riguardano una diatriba in corso sulla definizione delle cosiddette “aree idonee”, quelle cioè in cui sarà consentito installare degli impianti fotovoltaici. Una parte del governo, a cominciare dal ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica Gilberto Pichetto Fratin, di Forza Italia, vorrebbe accogliere le richieste delle aziende del settore che chiedono autorizzazioni più agevoli per la posa di questi impianti; un’altra parte, guidata dal ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida di Fratelli d’Italia, è invece assai restia, e preferisce assecondare le associazioni di categoria degli agricoltori e allevatori, in particolare Coldiretti.
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Come a volte succede, questi contrasti politici sono sfociati in una questione giuridica. Nel luglio del 2024 il ministero dell’Ambiente (MASE) aveva pubblicato un suo decreto ministeriale, il cosiddetto decreto “aree idonee”, nel quale appunto definiva come individuare i terreni nei quali autorizzare l’installazione dei pannelli fotovoltaici. Tante aziende del settore lo avevano però ritenuto troppo restrittivo: rendeva, cioè, troppo ampie le zone interdette ai nuovi impianti, e lo faceva peraltro introducendo parametri poco chiari, troppo discrezionali, dando un eccessivo potere decisionale alle Regioni. In questo modo una Regione avrebbe potuto autorizzarne di più, altre meno, e così si sarebbe creata disomogeneità sul territorio nazionale.
Sulla base di queste convinzioni, alcune aziende avevano fatto ricorso al tribunale amministrativo regionale (TAR) del Lazio. Il 13 maggio il TAR aveva accolto in larga parte il ricorso.
In particolare, il TAR aveva individuato due aspetti illegittimi: il fatto che il MASE non si fosse limitato a definire solo le “aree idonee”, con parametri netti e oggettivi, ma avesse anche definito, di fatto, tutta una serie di aree non idonee, in virtù di principi di tutela del paesaggio piuttosto discutibili; e che avesse consentito alle Regioni di applicare a loro volta regolamenti che potevano essere ancora più severi di quelli definiti in linea generale dal ministero.
C’era poi una terza questione. Il TAR si era dovuto infatti contestualmente esprimere anche su un decreto-legge, il decreto Agricoltura, promosso da Lollobrigida nel maggio 2024. Il provvedimento, tra le altre cose, escludeva di fatto tutte le zone classificate come agricole dalla possibilità di essere inserite tra le aree idonee all’installazione di impianti per le rinnovabili: una misura per tutelare quanto più possibile il diritto di agricoltori e allevatori, ma che appariva troppo restrittiva. Il TAR non si è espresso direttamente sulla questione, ma ha incaricato la Corte costituzionale di esprimersi sull’effettiva legittimità della norma.

Il ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, a sinistra, e quello dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida, a destra, durante una conferenza stampa a Palazzo Chigi il 6 maggio 2024 (Roberto Monaldo/LaPresse)
Su quest’ultimo aspetto il governo è quindi costretto ad attendere il pronunciamento della Corte costituzionale, che sarà nel 2026, ma sulle altre due questioni contestate dal TAR avrebbe invece potuto agire subito. Ed era in effetti questa l’intenzione inizialmente manifestata da Pichetto Fratin. Subito dopo la sentenza del TAR, a maggio, aveva annunciato un provvedimento per superare quelle obiezioni, in particolare limitando l’eccessivo potere discrezionale delle Regioni e definendo in modo più chiaro i parametri per l’individuazione delle aree idonee. Si capì subito, però, che oltre a Lollobrigida anche il ministro della Cultura Alessandro Giuli (pure lui di FdI) non era d’accordo. Giuli temeva rischi per l’installazione di impianti troppo a ridosso di siti d’interesse architettonico o paesaggistico.
L’ambiguità del governo si protrasse a lungo, oltre la scadenza del 13 luglio, termine entro il quale si sarebbero dovute recepire le obiezioni del TAR. A quel punto, però, i tre ministeri coinvolti decisero di impugnare la sentenza del TAR, ricorrendo così al Consiglio di Stato, il massimo organo della giustizia amministrativa. Lo fece anche Pichetto, contraddicendo dunque in modo abbastanza plateale se stesso, e dicendo poi – non pubblicamente – di essere stato di fatto costretto da Lollobrigida e dagli altri ministri che avevano assecondato l’iniziativa di FdI. Lollobrigida dice di non essere contrario alla promozione delle fonti rinnovabili, anzi; ribadisce però che si debba in tutti i modi evitare che ci siano delle speculazioni sui terreni agricoli, il cui valore potrebbe variare in modo consistente laddove grosse aziende del settore italiane o straniere decidessero di acquistarle per installarci degli impianti.
Il rischio, tuttavia, è che ora questo stallo produca altri problemi. Dal 2001 l’Unione Europea, tramite la cosiddetta direttiva RED II, sollecita gli Stati membri ad adottare norme che semplifichino le autorizzazioni agli impianti di energia da fonti rinnovabili. L’Italia non si è ancora pienamente adeguata a questa direttiva, quindi rischia una procedura d’infrazione che determinerebbe anche il pagamento di una sanzione. Peraltro nel 2023 l’Unione ha approvato la direttiva RED III, che rafforza ancora di più il principio della RED II.
Dopodiché nel RePowerEU, cioè nella revisione del PNRR, il grande piano di riforme e investimenti finanziato con fondi europei, l’Italia si è impegnata entro il 2025 a snellire le procedure autorizzative e a ridurre gli ostacoli burocratici per questo genere di impianti: e un contenzioso in corso col TAR potrebbe anche indurre la Commissione Europea a non erogare i finanziamenti previsti per il raggiungimento di questo obiettivo.
Ma c’è anche un problema legato al resto del decreto “Energia”. Quel provvedimento deve definire molte altre questioni, oltre a questa delle aree idonee, che ne costituisce anzi una componente marginale. Ci sono misure per ridurre la differenza tra il costo del gas italiano e quello europeo, alcune agevolazioni per le imprese, la revisione delle concessioni di nuove connessioni di futuri impianti di energia rinnovabile alla rete nazionale. È il motivo per cui sia il ministero dell’Ambiente, sia varie aziende del settore, hanno suggerito al governo di spezzettare il provvedimento, lasciando in sospeso la faccenda delle aree idonee ma approvando le altre misure.
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