Cinque frasi di Pasolini, ricontestualizzate

Tra le tante attribuite all’intellettuale morto 50 anni fa ma spesso citate a sproposito, più una inventata

Pasolini con gli occhiali da sole davanti ai microfoni durante una conferenza
Pier Paolo Pasolini al festival di Cannes, nel 1974 (Heinz Browers/United Archives/Getty Images)
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C’è una parola che salta fuori spesso quando si parla dell’impegno culturale, sociale e politico di Pier Paolo Pasolini, l’intellettuale italiano più eclettico ed eterodosso del secondo Novecento, morto in circostanze mai chiarite tra il 1° e il 2 novembre 1975: “eretico”. È l’aggettivo che spiega meglio perché fu ed è ancora un riferimento di molti: Pasolini non aderì acriticamente a nessuna grande ideologia del suo tempo, e questo permise a ciò che disse e scrisse di raccontare cambiamenti della società che i modi comuni di pensare faticavano a vedere, prima ancora che a comprendere.

La sua popolarità, soprattutto quella postuma, portò però anche a una circolazione duratura ed estesa di sue frasi decontestualizzate e citate a sproposito o in modo strumentale. È una sorte che lo accomuna ad altri intellettuali italiani del Novecento, da Antonio Gramsci (a cui Pasolini intitolò una delle sue prime raccolte di poesie) a Italo Calvino: qualsiasi argomento acquisisce autorevolezza, se per sostenerlo può tornare comoda una loro frase. Anche se la frase è monca, o persino inventata.

A favorire questo successo trasversale contribuirono indubbiamente l’attitudine di Pasolini all’invettiva e la sua tendenza a scrivere testi ambigui e irrisolti, a volte equivoci, di cui nel tempo si sono appropriati a turno politici di ogni schieramento, anche di destra, nazionalisti e reazionari. Politici probabilmente ignari o volutamente disinteressati al resto della produzione e della vita di Pasolini, che tra le altre cose fu iscritto al Partito comunista italiano. E che quando nel 1949 fu espulso «per indegnità morale e politica», in previsione di una condanna per atti osceni in luogo pubblico, disse: «Malgrado voi, resto e resterò comunista, nel senso più autentico di questa parola».

Le citazioni più famose di Pasolini – che fu scrittore, poeta, regista, sceneggiatore, giornalista e altro ancora – sono tratte da suoi discorsi più ampi e spesso complessi. Li elaborò soprattutto negli ultimi anni della sua vita, in articoli di giornale, di critica letteraria e di teoria del cinema non sempre di immediata comprensione, raccolti nei libri Empirismo eretico (1972), Scritti corsari (1975) e Lettere luterane (1976).

– Ascolta anche: Altre Indagini: la morte di Pasolini

Questa è una lista incompleta di frasi, titoli e argomenti che spesso gli vengono attribuiti stravolgendone il senso o ignorando il contesto in cui furono enunciati.

«Il fascismo degli antifascisti»
Nella sua versione semplificata e decontestualizzata, è una citazione “pasoliniana” spesso utilizzata per dare del fascista a chi si dichiara antifascista ma adotta metodi in qualche misura aggressivi o intransigenti. In realtà il senso era molto diverso. Era il titolo che Pasolini diede in Scritti corsari a un suo articolo precedentemente uscito sul Corriere della Sera, il 16 luglio 1974, in cui commentava con preoccupazione e ammirazione un prolungato sciopero della fame di Marco Pannella, leader del Partito Radicale.

Pasolini accusava praticamente tutte le istituzioni – dalla RAI al presidente della Repubblica Giovanni Leone – di ignorare le ragioni di quella protesta non violenta, tra cui la garanzia di uno spazio televisivo per gli esponenti del partito. Considerava quelle ragioni non solo legittime, ma una normale espressione di princìpi democratici. E se la prendeva con i gruppi di potere e con l’intera classe politica dell’epoca (la Democrazia Cristiana, ma non solo) sostenendo che il loro disinteresse per le istanze e per la vita stessa dei radicali fossero atti punitivi: atti fascisti, di fatto, anche se partecipavano a compierli antifascisti di nome. Era secondo lui un castigo per il clamoroso successo della campagna dei radicali durante il referendum sul divorzio, che due mesi prima aveva portato a «vanificare i grandi valori del passato» trascinando «in una sola rovina fascisti e antifascisti».

In questo articolo, pur partendo da un fatto molto specifico, Pasolini rafforzava un’idea sostenuta molte altre volte: la convinzione che l’azione politica di molte forze teoricamente antifasciste fosse diventata funzionale al successo latente di un nuovo fascismo internazionale, neocapitalista e consumistico. Il che rende l’uso strumentale di questa frase, da parte di politici di destra, quantomeno audace.

Pasolini in piedi parla e gesticola, da una postazione rialzata, in mezzo a un gruppo di persone

Pier Paolo Pasolini durante una conferenza stampa al festival del cinema di Venezia, 4 settembre 1968. (ANSA)

«Io simpatizzavo coi poliziotti»
È una delle frasi più citate in assoluto, spesso utilizzata per sostenere che di fronte alle contestazioni studentesche Pasolini difendesse la polizia e fosse contrario alla rivoluzione culturale del Sessantotto. La scrisse nella poesia Il PCI ai giovani, contenuta in Empirismo eretico e pubblicata la prima volta sull’Espresso il 16 giugno 1968. Era un commento ai violenti scontri di Valle Giulia, che a marzo avevano coinvolto a Roma centinaia di studenti e poliziotti alla facoltà di Architettura della Sapienza, provocando oltre cento feriti.

La poesia suscitò già all’epoca molte polemiche, nonostante lui stesso le attribuisse un tono ironico e un intento provocatorio. «Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti», scrisse Pasolini, definendo i poliziotti «figli di poveri» provenienti dalle periferie. Ma aggiungeva che negli scontri di Valle Giulia i poliziotti stavano dalla parte del torto, e in generale si diceva esplicitamente contrario all’istituzione stessa della polizia.

Descriveva i poliziotti come giovani vestiti da «pagliacci», che «per una quarantina di mille lire al mese» erano ridotti a uno stato psicologico indesiderabile: «senza più sorriso, senza più amicizia col mondo, separati, esclusi (in una esclusione che non ha uguali); umiliati dalla perdita della qualità di uomini per quella di poliziotti (l’essere odiati fa odiare)».

Quanto agli studenti, li accusava di essere «una nuova specie idealista di qualunquisti», giovani borghesi – «e quindi anticomunisti» – ambiziosi di potere quanto le persone che lo detenevano. Li descriveva come giovani molto blanditi perché sostanzialmente conformisti, e li esortava a iscriversi al PCI e partecipare a «un’azione rivoluzionaria vera», anziché scontrarsi con giovani poliziotti «costretti dalla povertà a essere servi».

Contro i capelloni
Sul conformismo è incentrato anche un altro articolo molto citato di Pasolini: Contro i capelli lunghi, uscito sul Corriere della Sera il 7 gennaio 1973. La sua idea riguardo a quel tratto comune a molti giovani dell’epoca è a volte riportata in modo superficiale come un suo specifico disprezzo per quell’estetica: disprezzo che in caso avrebbe peraltro accomunato i suoi gusti a quelli della borghesia scandalizzata, se la questione fosse stata quella.

In realtà, nell’articolo, Pasolini criticava i capelli lunghi come un segno di anticonformismo di facciata, una «moda»: il segno di un’adesione estetica e pre-linguistica, sostanzialmente vuota e servile, a determinati ruoli prestabiliti nella società e suggeriti alle coscienze attraverso la pubblicità. I capelli lunghi in quel contesto storico erano, per Pasolini, il «prodotto di una sottocultura di protesta che si opponeva a una sottocultura di potere», ma che da quella sottocultura di potere veniva intanto assorbito. Era un linguaggio che doveva esprimere «“cose” di sinistra», ma che stava perfettamente «dentro l’universo borghese», in una dialettica artificiosa.

Pasolini mentre usa una macchina da presa

Pasolini sul set del film La ricotta, a Roma, nel 1962. (Getty Images)

«Io so. Ma non ho le prove»
È il passaggio più famoso di uno degli articoli di Pasolini più discussi, analizzati e interpretati, uscito sul Corriere della Sera con il titolo Cos’è questo golpe?, il 14 novembre 1974, e poi in Scritti corsari con il titolo Il romanzo delle stragi. Il contenuto allusivo dell’articolo e il fatto che la pubblicazione sia avvenuta meno di un anno prima del brutale assassinio di Pasolini all’Idroscalo di Ostia, vicino a Roma, hanno alimentato nel tempo l’ipotesi dell’omicidio premeditato.

Nell’articolo Pasolini elencava e collegava tra loro una serie di stragi compiute in Italia nei primi cosiddetti “anni di piombo”, la cui responsabilità era all’epoca motivo di discussioni accese e scontri politici: piazza Fontana a Milano (1969), piazza della Loggia a Brescia (1974), la strage dell’Italicus a Bologna (1974). Scrisse di conoscere i nomi dei responsabili di tutte quelle stragi, per «istinto», e di non aver bisogno di prove né indizi perché non è compito degli intellettuali fornirli.

Molte letture dell’articolo si sono concentrate nel tempo su cosa effettivamente Pasolini sapesse o non sapesse, e se scegliendo come titolo dell’articolo «Romanzo delle stragi» alludesse o no al contenuto di un libro che stava scrivendo, Petrolio, incompiuto e pubblicato postumo. Di certo c’è solo cosa scrisse nell’articolo, in cui attribuiva genericamente la responsabilità delle stragi a un «gruppo di potenti» che «tra una messa e l’altra» dava disposizioni e assicurava protezioni a «vecchi generali», giovani neofascisti e criminali comuni senza nome. Soprattutto rivendicava per gli intellettuali la libertà e il diritto di «immaginare» tutto ciò che giornalisti e politici non sanno o tacciono, e di mettere insieme «i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico».

La «scomparsa delle lucciole»
A luglio, durante un incontro al Senato sui rapporti tra Pasolini e le istituzioni (promosso dalla senatrice di Fratelli d’Italia Cinzia Pellegrino), il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri elogiò Pasolini dicendo, tra le altre cose, che «difese l’ambiente». Citò nello specifico un famoso articolo contenuto in Scritti corsari, con il titolo L’articolo delle lucciole, pubblicato in precedenza sul Corriere della Sera, il 1° febbraio 1975, con il titolo Il vuoto del potere in Italia.

La critica di Pasolini verso l’urbanizzazione incontrollata e l’abbandono delle campagne è certamente un tema che emerge da molti suoi testi e film. Ma la scomparsa delle lucciole, nell’articolo citato da Gasparri e da altri prima di lui, è un fatto che Pasolini utilizza come una specie di coordinata temporale. È il suo modo di descrivere una transizione dal conformismo prima fascista e poi democristiano, nel dopoguerra, a un «vuoto di potere» e ideologico occupato da un conformismo borghese: un «nuovo potere, peggio che totalitario in quanto violentemente totalizzante».

È un argomento di cui Pasolini si occupò in molti altri articoli, descrivendo come una «mutazione antropologica» un periodo di cambiamenti culturali, sociali ed economici profondi e irreversibili. Un periodo in cui la civiltà contadina e popolare italiana, per effetto di un’omologazione culturale, fu progressivamente sostituita da una società dei consumi e da una nuova cultura edonistica e capitalista.

La frase inventata
Nel 2018 il leader della Lega e attuale vicepresidente del Consiglio Matteo Salvini citò, durante un comizio a Milano, una frase tratta da una presunta lettera di Pasolini allo scrittore Alberto Moravia. Descrive un «antifascismo rabbioso che viene sfogato nelle piazze oggi a fascismo finito» come «un’arma di distrazione che la classe dominante usa su studenti e lavoratori per vincolare il dissenso» e «combattere un nemico inesistente mentre il consumismo moderno striscia, si insinua e logora la società già moribonda».

È un testo apocrifo, che circola da tempo in un meme sui social, ma di cui non esiste traccia. Contiene qualche elemento che potrebbe essere associato al pensiero di Pasolini (il consumismo), ma anche espressioni di origine più recente («arma di distrazione») e idee assai difficilmente conciliabili con le sue: che il fascismo sia finito, soprattutto.