La destra che abbassa le tasse è un’illusione
Esiste nei proclami, ma se si va a guardare la politica fiscale dei governi – anche quello di Meloni – la realtà è un'altra

Al centro del dibattito tra i partiti di governo sulla legge di bilancio ci sono soprattutto due questioni, entrambe relative ad aumenti di tasse: la cedolare sugli affitti brevi e il contributo straordinario imposto a banche e assicurazioni. Per certi versi questa polemica sintetizza efficacemente una contraddizione della politica italiana, cioè il fatto che molto spesso la destra e prima ancora il centrodestra hanno criticato duramente delle tasse che però non hanno poi abbassato quando avrebbero potuto.
Nel complesso, anzi, a fronte della insistita retorica contro le tasse di Silvio Berlusconi prima, e degli altri leader conservatori poi, durante i governi del centrodestra non c’è mai davvero stata una sensibile riduzione delle imposte e della pressione fiscale, l’indicatore che misura l’entità delle tasse rispetto al prodotto interno lordo. L’andamento, negli ultimi vent’anni, è stato sempre piuttosto ondivago.
Qualche anno fa, Matteo Renzi disse che era soprattutto una questione di percezione. Siccome la sinistra nell’immaginario collettivo è quella che alza le tasse, ogni volta che un governo progressista lo fa, questo viene notato ed evidenziato: le imprese protestano, le associazioni di categoria si lamentano, i giornali liberali o conservatori alimentano polemiche. Renzi, ovviamente, lo diceva anche per mettere in luce i meriti di un governo, il suo, che pur essendo di centrosinistra si era sforzato tra il 2014 e il 2016 di non aumentare le tasse, riducendole anzi in molti settori. «Ora che invece le tasse le aumenta Giorgia Meloni, cioè un governo di centrodestra, nessuno sembra scandalizzarsi più di tanto», dice il leader del Movimento 5 Stelle Giuseppe Conte, d’accordo con Renzi.
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In realtà il dibattito sulle tasse è sempre molto complesso, e si presta a mistificazioni di parte. L’aumento delle tasse, di per sé, può essere un aspetto positivo o negativo a seconda della politica economica e fiscale che un governo adotta: un eccesso di imposizione deprime l’economia e rende svantaggioso il lavoro delle imprese, com’è ovvio; tuttavia, contrariamente a quanto spesso si pensi, anche una tassazione troppo bassa può essere frutto di un immobilismo dell’economia, di una mancanza di riforme e di un’inconsistenza del welfare.
Era a questi concetti che faceva riferimento Tommaso Padoa-Schioppa, ministro dell’Economia del secondo governo di Romano Prodi, quando nel 2007 affermò che «dovremmo avere il coraggio di dire che le tasse sono una cosa bellissima». La dichiarazione fu usata strumentalmente per anni – talvolta anche oggi – dal centrodestra per criticare quella che Matteo Salvini, tra gli altri, definisce «la sinistra tassa e spendi». All’estremo opposto di Padoa-Schioppa c’è il Berlusconi che nel 2004, da presidente del Consiglio, disse che se «io lavoro e lo Stato mi chiede il 33 per cento è una richiesta corretta. Se mi chiede il 50 e passa mi sento moralmente autorizzato a evadere per quanto posso». Insomma, nella narrazione generale la sinistra è quella “che tassa”, la destra è quella che tollera, o favorisce, l’evasione.
Ma se la distinzione appare netta e marcata sul piano dei valori e nelle polemiche politiche, nel concreto non c’è mai stata una così evidente differenza nell’azione del centrodestra e del centrosinistra. Ciclicamente chi sta all’opposizione critica ogni aumento di tasse fatto da chi sta in maggioranza, ma raramente le riduce quando va al governo. E questo, quasi sempre, per un banale motivo contabile: quando si introduce una nuova tassa generalmente aumenta il gettito su cui un governo può fare affidamento per finanziare le proprie misure o per ridurre il debito; dunque chi arriva al governo difficilmente rinuncia a una fonte di entrate del bilancio pubblico che deriva da una scelta fatta dal governo precedente, perché si troverebbe con un ammanco di cassa, e dovrebbe introdurre tasse alternative o ridurre le spese per non generare squilibri finanziari.
Insomma: la tassa che hai messo tu io la contesto, ma me ne servirò quando andrò io al governo.
È un po’ quello che è successo con l’IRAP, l’imposta regionale sulle attività produttive. Fu introdotta nel 1997 su iniziativa di Vincenzo Visco, ministro delle Finanze del governo Prodi e personaggio emblematico di una cultura di sinistra considerata troppo incline ad aumentare le tasse (non a caso fu soprannominato dal centrodestra “Dracula”, e Azione Giovani, l’associazione giovanile di Alleanza Nazionale allora guidata da una Giorgia Meloni appena trentenne, nel 2007 gli dedicò anche un francobollo goliardico).
Visco intendeva accorpare le molte tasse e balzelli sulle imprese che si erano andate accumulando, spesso disordinatamente, nel corso degli anni: ma il risultato fu comunque quello di creare una nuova tassa percepita come odiosa e iniqua dalle imprese, perché si applica sulla produzione più che sul guadagno effettivo, e dunque anche le aziende in perdita devono comunque versarla.
Per questo Berlusconi la definiva «imposta rapina», giocando con l’acronimo IRAP. E per oltre quindici anni fece una dura battaglia contro quella tassa. La stessa tassa che oggi il governo Meloni aumenta di due punti nei confronti di banche e assicurazioni (per le prime passerà al 6,65, per le seconde al 7,90 per cento). Sarà proprio questa la componente fissa più consistente che consentirà maggiori entrate strutturali allo Stato. Si tratta insomma di una smentita lampante della retorica berlusconiana, oltreché dei programmi elettorali presentati sia dalla Lega sia da Fratelli d’Italia alle ultime elezioni nel 2022.
Aboliremo l’Irap, quella che io chiamo l’Imposta RAPina. #DomenicaLive pic.twitter.com/sab6TCmIAp
— Silvio Berlusconi (@berlusconi) February 25, 2018
Ma è anche vero che di retorica si trattò, e non di altro. Nel senso che quando Berlusconi ha governato, dal 2008 al 2011 come presidente del Consiglio, non ha mai né abbassato né abolito l’IRAP, come aveva ripetutamente promesso. Alla fine l’unico governo che l’ha ridotta, anzi eliminandola per alcune categorie, è stato proprio un governo di centrosinistra, quello di Renzi, nel 2015. E quando nel 2021 Mario Draghi ne propose l’eliminazione all’interno di una più ampia revisione del fisco, fu proprio il centrodestra, insieme al Movimento 5 Stelle, a far cadere quel governo archiviando dunque l’ipotesi.
Per la questione degli affitti brevi la questione è un po’ diversa, ma la sostanza non cambia poi molto. La cedolare secca, cioè una tassa piatta (al 21 per cento, ma con alcune differenze a seconda del tipo di contratto che si adotta) sugli affitti degli immobili per uso abitativo che prescinde dal reddito complessivo di chi riscuote quell’affitto, fu introdotta proprio dal governo Berlusconi nel 2011. Era una scelta d’altronde in sintonia con la filosofia di Berlusconi, che ha sempre dato risalto alla riduzione delle tasse sulla casa e sui patrimoni privilegiando, con qualche eccezione, detassare la rendita piuttosto che il lavoro. Introdotta dal centrodestra, quell’agevolazione fiscale fu poi resa più consistente dai governi Letta e Renzi, di centrosinistra.
In realtà, in maniera speculare all’IRAP, anche la cedolare è una tassa che si è rivelata inefficace: l’obiettivo della misura era ridurre le tasse e semplificare le norme per chi affitta la propria casa così da invogliare i proprietari a fare contratti regolari, e dunque a ridurre i pagamenti in nero e l’evasione fiscale. Ma ormai è acclarato che quell’effetto non c’è stato, l’aumento di gettito che si sperava di ottenere è stato assai più contenuto delle aspettative iniziali.
In ogni caso, il centrodestra ha sempre difeso la cedolare, promettendo a più riprese una ulteriore riduzione dell’aliquota – che non ha mai fatto – e la sua estensione anche agli affitti di locali commerciali. Era questo uno dei punti inseriti nel programma elettorale della Lega nel 2022, per esempio; ed era una proposta su cui molto aveva insistito Fratelli d’Italia in campagna elettorale. Ora, al contrario, il governo ha inserito nella legge di bilancio l’aumento della cedolare secca per gli affitti brevi: dal 21 per cento, previsto per questi contratti, fino al 26 per cento, anche per chi affitta un solo immobile, a meno che non lo faccia senza la mediazione di una piattaforma digitale (mediazione a cui ricorre la stragrande maggioranza dei proprietari, in realtà).
Nel 2023, quando proprio il governo Meloni approvò l’aumento dell’aliquota della cedolare per gli affitti brevi, Fratelli d’Italia si impegnò a garantire che sarebbe stata una misura destinata a una ristretta categoria di persone (chi affitta più di un immobile): ora, due anni dopo, l’aumento viene esteso ancora di più.
Del resto, l’approccio di Meloni è per certi versi opposto a quello di Berlusconi. Dovendo scegliere, lei ha preferito ridurre le tasse sui redditi da lavoro, soprattutto per quanto riguarda i ceti medio bassi: le misure più significative in questo senso sono state la stabilizzazione del taglio del cuneo fiscale e contributivo, l’accorpamento delle prime due aliquote dell’IRPEF (il 23 per cento fino a 28mila euro annui) e ora, con questa finanziaria, la riduzione di due punti (dal 35 al 33 per cento) quella per i redditi fino a 50mila euro. Si tratta di scelte del resto rese possibili anche dal fatto che il governo Meloni si è trovato con un gettito fiscale ben più consistente del previsto (circa una ventina di miliardi in più) per via dell’inflazione e del cosiddetto “drenaggio fiscale” (meccanismo perverso che avevamo spiegato qui). Queste maggiori entrate hanno compensato il taglio delle tasse.
Se si guarda più in generale l’andamento della pressione fiscale, anche qui non sembra esserci chissà che differenza tra centrodestra e centrosinistra, dal 1994 a oggi. I governi di centrosinistra tra il 1996 e il 2001 la ridussero leggermente (dal 40,6 al 39,8 per cento); poi, quando tra il 2001 e il 2006 governò Berlusconi, variò leggermente a seconda degli anni, ma restando sostanzialmente stabile nell’arco del quinquennio; salì fino al 41 per cento nei due anni seguenti, col governo Prodi, e tuttavia Berlusconi, tornato al governo dopo aver molto criticato questo aumento della pressione fiscale, non seppe ridurla fino al 2011, quando poi il governo d’emergenza nazionale guidato da Mario Monti, dovendo attuare politiche di austerità in un contesto di grave crisi finanziaria, la fece crescere fino a oltre il 43 per cento. I cinque anni di governi di centrosinistra (Letta, Renzi e Gentiloni) videro un nuovo calo, fino al 41,7 per cento. Poi negli anni successivi, coi governi di Conte, salì di nuovo, per tornare di nuovo al 41,7 per cento con Draghi.
Con Meloni, dunque con un governo di centrodestra, la pressione sta aumentando di nuovo. Quando era all’opposizione Meloni aveva fatto della riduzione della pressione fiscale un suo punto identitario, arrivando perfino a proporre di introdurre un limite costituzionale al 40 per cento. Dopo 3 anni del suo governo, la pressione fiscale è aumentata dal 41,7 al 42,8 per cento.



