​​L’intelligenza è genetica?

Qualche anno fa due ricercatori statunitensi hanno fatto una scommessa su questo, adesso uno dei due sostiene di averla vinta

(Getty Images)
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Sette anni fa il politologo Charles Murray e lo psicologo e genetista comportamentale Eric Turkheimer fecero una scommessa. Murray sosteneva che entro il 2025 saremmo stati in grado di capire in che modo il DNA determina il quoziente intellettivo (QI). Turkheimer invece riteneva che per quella data non sarebbe stato possibile conoscere i precisi meccanismi genetici e neurali che rendono alcune persone più intelligenti di altre. Ora che siamo arrivati al 2025, Turkheimer ha pubblicato un articolo sull’Atlantic in cui spiega perché ritiene di aver vinto la scommessa.

Riuscire a dare una definizione univoca di intelligenza e capire da che cosa sia determinata è un obiettivo affascinante per le neuroscienze, ma anche molto difficile e potenzialmente controverso. Le evidenze scientifiche raccolte finora suggeriscono che l’intelligenza sia infatti un tratto complesso, influenzato dall’interazione tra predisposizioni genetiche e fattori ambientali, culturali e socioeconomici. Il test del QI è uno dei modi più diffusi per misurare l’intelligenza, soprattutto negli Stati Uniti, anche se non è l’unico e non è privo di limiti.

La discussione fra Murray e Turkheimer era iniziata dopo una lunga conversazione che Murray aveva avuto con Sam Harris, autore di best seller, nel suo podcast Making Sense, molto seguito negli Stati Uniti. L’episodio era dedicato alla diffusione di alcune teorie controverse di Murray, presentate falsamente come se avessero il consenso degli esperti sul tema dell’intelligenza. Per le sue tesi Murray veniva presentato come una vittima del “politicamente corretto” e di critici accademici poco onesti intellettualmente.

In sostanza, Murray e Harris sostenevano che l’intelligenza – quella misurata dal QI – fosse un fattore determinante nel successo individuale; che fosse in larga parte determinata dalla genetica; e di conseguenza che le differenze socioeconomiche e nei livelli di istruzione tra gruppi etnici (bianchi, afroamericani, ispanici e altre minoranze) negli Stati Uniti potessero essere spiegate da differenze nel QI e quindi biologiche. Gran parte di queste idee era già stata esposta nel libro The Bell Curve (mai tradotto in italiano), pubblicato da Murray nel 1994 insieme allo psicologo Richard Herrnstein.

Murray spiegava quindi in modo biologico il fatto che negli Stati Uniti le persone afroamericane o ispaniche ottengono in media punteggi di QI inferiori rispetto alle persone bianche o asiatiche. È noto però, e Turkheimer lo spiega, che il test del QI è più facilmente superato da chi riceve un’istruzione migliore e più avanzata, e questo spiega almeno in parte queste differenze. Nel tempo, le posizioni di Murray hanno suscitato reazioni forti e accuse di razzismo sia dentro che fuori dall’ambiente accademico.

Dopo aver ascoltato quell’intervista a Murray, tre scienziati – tra cui lo stesso Turkheimer – decisero di prendere pubblicamente le distanze dalle affermazioni di Murray. In un articolo pubblicato nel 2017 su Vox, commentarono i passaggi più problematici delle sue argomentazioni e il modo in cui, a loro avviso, Murray era arrivato con troppa disinvoltura a collegare differenze di QI tra gruppi etnici a presunte basi genetiche innate. Da quel confronto nacque un dibattito fra Turkheimer e Murray, che alla fine decisero di trasformarlo in una scommessa. Murray sostenne che negli anni successivi la sua tesi sarebbe stata dimostrata dalla scienza.

Oggi Turkheimer riprende gran parte delle cose che aveva scritto nell’articolo su Vox, dichiarando sull’Atlantic di aver vinto la scommessa. Nell’articolo Turkheimer dice anche di aver contattato Murray per chiedergli la sua opinione, e che quest’ultimo ha insistito nel dire di avere ancora ragione e ha anticipato che lo dimostrerà.

Turkheimer spiega che l’intelligenza può essere misurata in maniera affidabile attraverso i test del QI, e sottolinea che le persone che ottengono buoni risultati in un tipo di test attitudinale tendono a ottenerli anche negli altri, un fenomeno definito dagli esperti intelligenza generale. Turkheimer concorda inoltre con Murray sul fatto che l’intelligenza sia in parte ereditaria: «Come la validità dei test di intelligenza, anche l’ereditarietà dell’intelligenza non è più oggetto di controversie scientifiche», scrive.

È però a partire da qui che Turkheimer inizia a mettere in discussione gli argomenti di Murray. Spiega infatti che l’ereditarietà non è una proprietà speciale di alcuni tratti, ma una caratteristica generale della condizione umana, visto che i tratti sono in buona misura ereditari. Queste informazioni, tuttavia, si manifestano nel corso della vita in modi complessi, sempre in interazione con l’ambiente e influenzati da eventi casuali.

Con la pubblicazione della sequenza del genoma umano nel 2003, molti scienziati hanno cercato di individuare geni specifici associati a comportamenti o capacità cognitive. I risultati, però, hanno riservato una sorpresa: quasi nessuna delle qualità umane complesse che si sono dimostrate ereditarie può essere ricondotta a un singolo gene. Non esistono veri e propri “geni dell’intelligenza”, se non in senso molto debole. Sono state identificate centinaia di varianti genetiche associate all’intelligenza, ciascuna con un effetto minimo, e anche sommando tutti questi effetti si riesce a spiegare solo una piccola parte delle differenze nei punteggi di QI tra gli individui. Sebbene questo approccio sia utile nelle scienze sociali, non fornisce una comprensione puramente biologica del perché alcune persone abbiano maggiori capacità cognitive di altre.

Turkheimer sottolinea inoltre che l’ereditarietà, anche quando è alta, non esclude l’influenza dell’ambiente. Questa osservazione non mette in discussione il fatto che l’intelligenza sia ereditaria, ma serve a sfatare l’idea secondo cui i tratti ereditari non possano essere modificati dai fattori ambientali. La ricerca concorda infatti sull’idea che i geni influenzano le nostre capacità ma non le determinano in modo rigido, e che l’ambiente ha un ruolo fondamentale nel plasmare come queste capacità si manifestano nel corso della vita.

In definitiva, Turkheimer sostiene di aver vinto la scommessa perché, anche se non può escludere che un giorno ci riusciremo, siamo ancora lontani dal comprendere i precisi meccanismi genetici che determinano le differenze di intelligenza tra le persone.