I cinque modi di Israele per fare male all’economia della Cisgiordania
I palestinesi dicono che è una rappresaglia del ministro delle Finanze israeliano Smotrich dopo il 7 ottobre
di Daniele Raineri, foto di Gabriele Micalizzi

Abdo Idris, 51 anni, è il direttore dell’unione delle camere di commercio palestinesi, conosce come funziona l’economia della Cisgiordania e la prima cosa che dice è: va male. Secondo i suoi dati, nel 2024 il prodotto interno lordo (PIL) nei Territori palestinesi occupati è calato del 28 per cento rispetto all’anno precedente. La disoccupazione nello stesso anno ha superato il 35 per cento. Quest’anno non è ancora finito ma le cose vanno peggio, dice.
I giornali di finanza in questo caso parlerebbero di un crollo più che di un calo e quando ci fu la pandemia in Italia, tanto per fare un confronto, il PIL diminuì dell’8,9 per cento.
L’economia nei Territori palestinesi occupati non andava male prima delle stragi di civili israeliani compiute da Hamas il 7 ottobre 2023, secondo dati pubblicati sull’Economist. In quell’anno il Prodotto interno lordo era stato di circa diciannove miliardi di dollari. Era pari a quello del Libano, ma i palestinesi della Cisgiordania sono tre milioni contro sei milioni di libanesi. La disoccupazione era al 13 per cento, contro il 45 per cento nella Striscia di Gaza.
Idris sostiene che questo crollo è voluto dal ministro delle Finanze israeliano Bezalel Smotrich, che ha a disposizione molti modi per danneggiare l’economia palestinese e li sta usando. «Il governo israeliano ha un obiettivo chiaro: impoverire la popolazione palestinese. Questo è lo scopo principale della politica economica d’occupazione», dice.
Smotrich è uno dei due ministri del governo israeliano, assieme a Itamar Ben Gvir, a essere diventato noto a livello internazionale per le dichiarazioni estreme contro tutti i palestinesi. Dopo il 7 ottobre di due anni fa, il ministro ha adottato una linea punitiva anche contro i palestinesi della Cisgiordania.

Abdo Idris nel suo ufficio (Gabriele Micalizzi, CESURA, per il Post)
Il direttore Idris siede in un ufficio ampio al terzo piano di una palazzina elegante di Hebron, la città nel sud dei Territori che è il centro dell’economia regionale. È un pezzo di Palestina istituzionale, o che almeno prova a esserlo. In tutte le città palestinesi c’è una camera di commercio, un ente che facilita il lavoro degli imprenditori privati e al quale tutte le imprese si registrano, come peraltro in Italia.
Si può fare una sintesi di quattro righe sul perché secondo Idris l’economia della Cisgiordania va male. Israele ha il controllo dei varchi da dove entrano le merci acquistate dai palestinesi, della distribuzione dell’elettricità, dei passaggi che servono ai palestinesi per muoversi e del sistema bancario usato dai palestinesi. Può manipolare a piacimento l’andamento dell’economia palestinese.
Per chi volesse di più, ecco la spiegazione lunga.

Un mercato a Jenin, Cisgiordania (Gabriele Micalizzi, CESURA, per il Post)
Il primo grande colpo contro l’economia dei Territori palestinesi dopo il 7 ottobre, dice Idris, è stato il divieto per i palestinesi della Cisgiordania di andare a lavorare in Israele. Circa centomila palestinesi hanno perso il loro posto di lavoro in territorio israeliano. In parte sono già stati rimpiazzati con manodopera che viene dall’Asia. Alcuni di loro tentano ancora di andare a lavorare da clandestini in Israele e scavalcano il muro di separazione che fa da confine, ma è molto pericoloso perché i soldati israeliani sparano a vista. I soldi guadagnati dai palestinesi in Israele erano spesi in Cisgiordania e facevano girare l’economia.
Il governo israeliano giustifica questa restrizione dicendo che si tratta di una misura di sicurezza. Idris dice che non è vero, perché ogni giorno molti palestinesi continuano a lavorare dentro le colonie e nelle zone industriali israeliane in Cisgiordania. Se non sono un problema di sicurezza per i coloni, è il suo ragionamento, perché dovrebbero esserlo per gli altri israeliani?

Il muro che divide la Cisgiordania da Israele (Gabriele Micalizzi, CESURA, per il Post)
C’è poi la questione cruciale della mukāsa: è il termine arabo che indica le tasse raccolte da Israele sui prodotti palestinesi o sul lavoro dei palestinesi in Israele. Israele trattiene questi soldi invece di trasferirli all’Autorità palestinese, come sarebbe previsto dagli accordi.
È uno dei problemi più grossi. Secondo il cosiddetto protocollo di Parigi del 1994, Israele si occupa di raccogliere l’Iva e i dazi doganali su tutte le merci che entrano in Palestina, «perché tutto ciò che compriamo, qualsiasi bene, passa per Israele: ogni tassa o dazio è gestito da loro», spiega Idris. Israele trattiene una commissione del 3 per cento dalle mukāsa e poi, in teoria, gira il resto all’Autorità palestinese.
«Il problema è che Israele non trasferisce regolarmente queste entrate. Spesso le blocca o le riduce, con scuse diverse — dice che servono per coprire spese sanitarie, infrastrutture, sicurezza, eccetera. Noi, come camere di commercio, siamo contrari a questo meccanismo perché consegna a Israele un potere totale sulla nostra economia», dice il rappresentante degli imprenditori. «Prima tratteneva circa 50 milioni di dollari al mese. Dopo il 7 ottobre, la situazione è peggiorata: ora, da molti mesi, non trasferisce affatto le somme dovute ai palestinesi. A oggi stimiamo che il debito totale di Israele verso l’Autorità palestinese superi i 3 miliardi di dollari».
Senza i soldi, l’Autorità palestinese non riesce più a pagare gli stipendi pubblici. Soltanto per le paghe dei dipendenti serve circa un miliardo di shekel all’anno, più mezzo miliardo di shekel per ospedali e servizi pubblici (per convertire le cifre da shekel a euro basta dividere per quattro, è una buona approssimazione. Un miliardo di shekel equivale a duecentocinquanta milioni di euro e così via). «Senza quei trasferimenti, il sistema si blocca. E questo non riguarda solo il governo: colpisce i lavoratori, i commercianti, i consumatori, tutti», aggiunge Idris.

Il mercato e le bancarelle di frutta a Jenin (Gabriele Micalizzi, CESURA, per il Post)
Israele sostiene che i soldi sono trattenuti perché l’Autorità palestinese paga una somma mensile alle famiglie degli attentatori suicidi e dei detenuti per terrorismo, e così crea un incentivo agli attacchi terroristici contro gli israeliani. «Ma l’Autorità palestinese, per evitare questa scusa, ha smesso di versare quelle indennità e Israele ha comunque continuato a trattenere i fondi. Quindi non è una questione di stipendi ai prigionieri: è una decisione politica per strangolare economicamente la Cisgiordania», dice il direttore dell’unione delle camere di commercio.
Il 25 settembre tredici paesi, in maggioranza europei ma ci sono anche Giappone e Arabia Saudita, hanno lanciato la Coalizione per la sostenibilità finanziaria dell’Autorità palestinese, che dovrebbe coprire una parte delle spese. L’Autorità nazionale palestinese si appoggia molto agli aiuti internazionali. I privati sono un’altra cosa.
Idris dice che un altro problema è il prezzo dell’elettricità. «Noi compriamo tutta l’energia da Israele. Fino a poco tempo fa l’Autorità palestinese pagava circa 35 milioni di shekel al mese. Il ministro israeliano Smotrich ha deciso di raddoppiare la cifra: ora paghiamo 70 milioni al mese. È un aumento enorme, e si riflette sui prezzi per i cittadini palestinesi».
Quarto problema dopo i lavoratori respinti, le tasse non trasferite e l’aumento dell’elettricità: Israele ha il controllo fisico dei confini della Cisgiordania. Spesso li chiude. «I camion palestinesi restano fermi per giorni ai posti di blocco. Quando finalmente li fanno passare, dicono che la merce non è stata registrata correttamente e fanno pagare di nuovo le tasse. È un circolo vizioso che distrugge l’economia locale», dice il direttore delle camere di commercio.

La zona dei negozi a Jenin, i commercianti dicono che i clienti sono molti meno rispetto al passato (Gabriele Micalizzi, CESURA, per il Post)
I varchi commerciali tra Israele e Cisgiordania – come quello di Tarkumiya – sono aperti soltanto due o tre giorni a settimana. Il varco con la Giordania, quello del ponte Allenby, è stato chiuso per lunghi periodi, «una volta per tre mesi di seguito. Prima passavano ogni giorno tra 450 e 600 camion, ora ne passano tra 20 e 50». E una volta dentro la Cisgiordania, c’è il problema dei gate. «Ci sono oltre mille gate che separano città, paesi e aree agricole. Ogni volta che i soldati li chiudono, i trasporti si fermano, i prodotti non circolano e i prezzi aumentano. In alcuni casi, questo fa salire i costi per la popolazione fino al 20 per cento».
Idris dice che di tutti questi problemi, dai più generali a quelli più piccoli e locali, parla con le delegazioni di diplomatici che vengono in visita in Cisgiordania dall’Europa, dai paesi arabi e dagli Stati Uniti. Poi i diplomatici vanno a parlare con le autorità israeliane, ma ottengono l’effetto contrario a quello sperato: se chiedono la risoluzione di un problema specifico, le autorità israeliane per ripicca rendono quel problema ancora più grosso.
Al primo piano dell’edificio c’è un’esposizione di prodotti palestinesi. Il direttore delle camere di commercio li passa in rassegna, ci sono cancellate di ferro battuto, macchine per il caffè, rotoli di plastica, serrande, snack, scarpe «che vendiamo nel Regno Unito», mobili, quaderni «che sono in tutti i negozi di cancelleria in Israele».
«Ogni transazione internazionale – anche se compriamo merce dalla Cina, per esempio – deve passare per una banca israeliana. Ma il sistema bancario può essere bloccato a monte. Israele decide quando e come trasferire i fondi, e questo paralizza gli scambi commerciali con il mondo», dice Idris. È il quinto problema. «Il ministro Smotrich è dietro a queste decisioni. È un’altra forma di controllo economico».



