I rottami di ferro sono molto ambiti

Perché in giro non ce ne sono molti e servono alla siderurgia – in particolare quella italiana – per alimentare i forni elettrici

di Francesco Gaeta

Il carico di una nave di rottame di ferro in partenza dagli Stati Uniti (AP Photo/Charlie Riedel)
Il carico di una nave di rottame di ferro in partenza dagli Stati Uniti (AP Photo/Charlie Riedel)
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Dal 2030 è probabile che gli altiforni scompariranno dagli impianti industriali europei perché l’Unione Europea, da quella data, farà pagare alle aziende siderurgiche tutte le emissioni di CO2, senza più sconti. Produrre acciaio con gli altiforni, come avviene oggi nell’ex ILVA di Taranto, significa usare un residuo del carbon fossile come combustibile, e di conseguenza emettere una gran quantità di CO2. Pertanto gli altiforni diventeranno non soltanto dannosi sul piano ambientale, ma anche poco concorrenziali rispetto ai meno inquinanti forni elettrici. L’Italia appare in questo avvantaggiata: la produzione nazionale si basa su 34 forni elettrici e un impianto ad altoforno.

C’è però un problema: i forni elettrici usati in Italia e non solo (in gergo EAF, Electric Arc Furnace) utilizzano come materia prima il “rottame di ferro”, cioè materiale ferroso proveniente da demolizioni, lavorazioni industriali o beni a fine vita. È una materia prima di cui c’è sempre minore disponibilità. Secondo Federacciai, che raggruppa i produttori siderurgici italiani, la domanda globale di rottame crescerà a un ritmo superiore alla disponibilità, tale da generare una carenza che potrebbe penalizzare soprattutto l’Italia, che non riesce a soddisfare il fabbisogno con la sola raccolta interna: oggi importiamo circa un terzo dei 19 milioni di tonnellate di rottame di ferro che servono ogni anno. Insieme al costo dell’energia, il rottame di ferro è di fatto il problema principale per le aziende del settore.

La cosa sta generando conseguenze già ora, almeno se si guarda al rilancio del sito siderurgico di Piombino, che è il secondo in Italia dopo Taranto. Metinvest Adria, composta dal gruppo siderurgico ucraino Metinvest e dal produttore italiano di impianti Danieli, avvierà entro quest’anno un investimento da 2,5 miliardi di euro per un impianto a forni elettrici di grande capacità. È di fatto l’alternativa meno inquinante all’ex ILVA: dal 2027 produrrà circa 2,7 milioni di tonnellate all’anno, cioè una quantità superiore a quella che esce attualmente da Taranto. Il piano piace molto al ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso («Piombino sarà un polo di avanguardia con tecnologie verdi»), che a luglio ha promosso un accordo di programma tra investitori ed enti locali, ma piace un po’ meno a Federacciai.

Già nel novembre scorso il presidente Antonio Gozzi aveva detto che un impianto del genere si prenderà «quasi il 15 per cento dei consumi annuali di rottame in Italia. Il mercato interno non può reggere un extra di domanda di questa dimensione senza ripercussioni gravissime su tutta l’elettrosiderurgia italiana». È un po’ strano che i produttori considerino rischioso l’investimento di uno dei produttori di impianti siderurgici. E si deve appunto alla carenza di materia prima, che non basta per tutti.

Nel frattempo l’Europa continua a esportare grandi quantità di rottame verso l’estero, privandosi di ciò che sarà sempre più necessario per la decarbonizzazione della produzione di acciaio. Nel 2023 dalle aziende europee di smaltimento e riciclo sono partiti quasi 19 milioni di tonnellate di rottame ferroso, circa un terzo in più rispetto al 2016. Oltre la metà è stata portata in Turchia, primo importatore mondiale, mentre quote crescenti hanno raggiunto anche India ed Egitto. Nello stesso anno l’Italia ha dovuto importarne circa 6 milioni di tonnellate. Dunque da un lato l’Unione Europea – la cui produzione siderurgica deriva al 60 per cento circa dalla vecchia tecnologia ad altoforno – promuove la transizione ai forni elettrici, dall’altro spinge fuori dai confini la materia prima necessaria a farli funzionare. Intanto i prezzi aumentano.

A differenza di oro, rame o petrolio, il rottame di ferro è un mercato frammentato, fatto di raccolta locale, commerci e spedizioni marittime. Però c’è una quotazione che tutti guardano: quella dei carichi di rottame che partono dai porti europei e americani diretti appunto in Turchia. La siderurgia turca ha infatti una capacità produttiva di oltre 50 milioni di tonnellate di acciaio all’anno (l’Italia ne produce 20) ed è l’ottavo produttore al mondo. Più del 70 per cento della produzione turca avviene con forni elettrici.

Quella rotta è diventata il riferimento internazionale: i contratti di queste spedizioni sono la base per fissare il prezzo in Europa. Sul mercato londinese dei metalli (l’LME), a inizio ottobre il rottame di ferro valeva circa 350 dollari a tonnellata, e i contratti che in finanza vengono usati per scommettere sul prezzo futuro di un bene, i cosiddetti futures, segnalavano che a inizio 2026 il prezzo potrebbe salire attorno ai 360 e alla fine del prossimo anno potrebbe toccare quota 380. Un segnale che domanda e scarsità continueranno a innalzare il valore di una materia prima che, per la siderurgia, sta diventando sempre più fondamentale.

In molti nel mondo stanno provando a prendere contromisure. Secondo le stime della società di consulenza GMK Center, 48 paesi — inclusi India e Cina — hanno già introdotto restrizioni all’export di rottame ferroso. Nel frattempo la Commissione Europea ha avviato un regime di sorveglianza sulle importazioni e sulle esportazioni: significa che le aziende devono notificare i flussi di rottame, così da avere dati puntuali per valutare se introdurre limitazioni. È una misura intermedia, che non blocca ancora i commerci ma che prepara il terreno a possibili interventi più restrittivi nei prossimi mesi.

A livello europeo però il fronte industriale è diviso: se le acciaierie chiedono di trattenere il rottame in Europa, i riciclatori si oppongono, e dicono che un divieto rischierebbe di avere effetti perversi. Uno studio dell’Università di Jena, in Germania, commissionato dalle associazioni del riciclo tedesche, sostiene che limitare l’export ridurrebbe l’uso globale di rottame e finirebbe per favorire il ritorno al minerale di ferro e al carbone nei paesi privati dell’approvvigionamento. Secondo i riciclatori, le esportazioni europee riflettono soprattutto una domanda interna insufficiente e una capacità di trattamento ancora limitata per i rottami misti (come quelli da demolizione auto). Bloccarle non aumenterebbe di per sé la disponibilità per le acciaierie, ma rischierebbe solo di deprimere il mercato e penalizzare un settore che già lavora con margini ridotti.

Una via per uscire dalla dipendenza dal rottame sarebbe adottare una tecnologia diversa, quella dei forni elettrici che utilizzano il cosiddetto “preridotto”. Si tratta di un prodotto ferroso ottenuto chimicamente dal minerale, in un processo che richiede un consistente uso di gas naturale o in alternativa di idrogeno. È la soluzione che si prospetta per il futuro impianto di Taranto, ma è ancora ritenuta troppo costosa.