Non esiste che i gatti vivano il momento del pasto con leggerezza
Le nevrosi feline per il cibo se la giocano solo con quelle dei loro umani, racconta Matteo Bordone nel suo libro “Confessioni di un gattaro”

Esther e Toshiro sono due gatti diversissimi tra loro ma simili a milioni di altri nel mondo. Vivono nella casa di Matteo Bordone, autore del podcast quotidiano Tienimi Bordone e di tante altre cose del Post, che nel suo libro Confessioni di un gattaro, in uscita il 16 settembre per Rizzoli Lizard, racconta le abitudini, le nevrosi e le dolcezze della sua colonia felina e umana, in cui si ritroverà chiunque abbia o abbia avuto dei gatti come coinquilini.
Nel libro, illustrato da Iris Biasio, Bordone ripercorre la storia millenaria di come le persone e i gatti abbiano stretto un rapporto interspecifico unico nella storia della civiltà, «che non ha niente a che vedere con l’amicizia: noi e i gatti non parliamo la stessa lingua, non ci capiamo ma ci piacciamo, a tratti non ci sopportiamo ma non possiamo stare lontani gli uni dagli altri». Domenica 21 settembre alle 14, al Talk del Post a Faenza, Bordone parlerà di gatti e di Giappone insieme a Flavio Parisi e a Francesca Crescentini (Tegamini).
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Non c’è verso di essere considerato nei dieci minuti successivi al momento in cui, a seconda delle stagioni, Esther e Toshiro cenano. Le stagioni sono importanti quando si parla di alimentazione perché i gatti non hanno l’orologio, quindi si regolano con la fame e con il sole. Essendo il ciclo circadiano legato alle stagioni sulla Terra, l’alternarsi di giornate più lunghe e più corte segue un andamento simmetrico stagionale. Eppure nel cervello di questi due le cose non stanno così.
L’ora solare, l’ora legale, il clima torrido o il diluvio, il naturale andamento delle giornate alla latitudine dove viviamo: tutto sembra misteriosamente capace di agire su un dato specifico del metabolismo felino per anticipare il momento in cui i gatti cominciano a mostrare un certo interesse per l’argomento alimentare, assolutamente mai per ritardarlo. Non è scientificamente dimostrabile, ma chi ha dei gatti sa che è così: le rivendicazioni sono continue, i toni sempre più accesi. Se i gatti avessero la responsabilità di qualcosa di pratico in casa, sarebbe una continua alternanza di mobilitazioni e lassismo, scioperi la mattina e sportelli chiusi con la scritta «TORNO SUBITO» la sera.
Questa relazione allarmistica e ansiosa con il cibo ha radici antiche, e incontra una stessa predisposizione umana alle nevrosi alimentari, ragione per cui ci sono case dove non si può nemmeno pronunciare la parola «pappa» se non si vuole assistere alla scena dei gatti che, aggrappati alle tende, minacciano gesti inconsulti se non saranno finalmente nutriti dopo mesi di digiuno (qualche ora) con abbondanti crocchette a base di animali morti paracadutati dagli elicotteri dell’Onu.
Il mercato del cibo per gatti è due cose insieme: uno spasso e un furto legalizzato. Come insegnano i prodotti per la prima infanzia, il costo di un bene può non essere legato al suo valore sostanziale ma a quello simbolico: l’idea che il nostro bambino indossi una magliettina di marca è più significativa della qualità dell’indumento o da quanto sia lungo il periodo in cui potrà essere effettivamente indossato. Per i gatti vale lo stesso, infatti sulle confezioni delle loro pappe ci sono richiami a una natura primitiva nella quale i nostri amati felini saltano tra le spighe di grano e si tuffano nei corsi d’acqua per catturare i salmoni di cui si nutrono. Nei nomi di questi prodotti ci sono praterie, foreste, libertà e aggettivi come «naturale». Ma soprattutto trionfa il «selvaggio». È selvaggio il gatto, selvaggia la natura da cui vengono i cibi e selvaggio anche il pesce, il pollo, qualsiasi animale tritato per essere trasformato in pappa. Proprio quell’universo dal quale il gatto domestico si è allontanato diventa l’aspirazione sua e dei suoi padroni davanti agli scaffali dei negozi di articoli per animali. Per chi volesse nutrire queste nevrosi di accudimento con dei prodotti sofisticati, ci sono infinite nicchie in cui rintanarsi: il monoproteico, il senza cereali, il cibo a base di tacchini canadesi; e anche abbinamenti arditi come tonnetto e gamberi di fiume, faraona e anatra. Le lattine di cibo umido negli anni sono diventate sempre più piccole, e oggi le miniporzioni vanno considerate dei contorni. Cosa ci sia di naturale e selvaggio nel concetto di «contorno» applicato a un predatore carnivoro è difficile da stabilire, ma tant’è.
Nel caso del rapporto gatti-umani, il cibo è un legame che prevede una stramba forma di reciprocità: come noi ci occupiamo di nutrire loro, anche loro – in una maniera decisamente più difficile da inquadrare – ci procurano dei regalini a sfondo alimentare, un altro comportamento del gatto che resta nel campo della stranezza su cui non c’è molto da fare se non registrare i casi più notevoli. Nella mia esperienza personale il record spetta a Elvis, il gattone nero del mio coinquilino dei tardi vent’anni, per il quale era fondamentale occuparsi del nostro nutrimento. Lo faceva con le lucertole che, scoprimmo a un certo punto, nascondeva sotto il tappeto della sala. Al ritrovamento, le lucertole erano del tutto disidratate, numerose, quasi fossero degli snack da sgranocchiare. A volte Elvis prendeva la questione con un piglio più risolutivo, ed entrava in casa dalla finestra stringendo tra i denti un piccione intero, adulto, vivo, ferito e non esattamente sereno. Scattava a quel punto un trambusto molto divertente in cui noi lo inseguivamo per casa dicendogli: «Elvis, brutto pazzo cosa cazzo fai?!», e lui ringhiando e seminando una scia di sangue, piume e caos, sembrava risponderci: «Non solo non fate mai niente, ma quando caccio io per voi non vi va bene!»
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