L’unico posto di Tokyo dove si può essere trattati male
È il mercato del pesce, fino al 2018 nella leggendaria sede di Tsukiji, raccontato da Flavio Parisi in “Tokyo è una grande cucina”

Il mercato del pesce di Tokyo ha avuto sede fino al 2018 nel quartiere di Tsukiji, dove centinaia di venditori in un enorme complesso di edifici hanno rifornito per quasi un secolo i ristoranti della città. Poi si trasferì a Toyosu, in una struttura molto più moderna e con molto meno fascino. Se la gentilezza, l’educazione e l’attenzione alle formalità sono tra gli aspetti più noti e raccontati della cultura giapponese, i modi di chi lavora al mercato sono molto più bruschi, e quindi a chi si inoltrava più o meno clandestinamente tra i banchi poteva capitare di essere trattati male, una cosa rarissima in qualsiasi altro luogo di Tokyo.
Lo racconta Flavio Parisi, che a Tokyo ci vive da moltissimi anni, lavorando per la televisione pubblica e insegnando italiano ai cantanti d’opera. Parisi, che scrive spesso sul Post e che ha fatto con Matteo Bordone il podcast Viaggio a Tokyo, ha raccontato nel suo nuovo libro Tokyo è una grande cucina, appena pubblicato da Utet, la cultura del cibo della città più ossessionata dal cibo al mondo. Nel capitolo che pubblichiamo spiega come è riuscito a stringere dei legami coi venditori di Tsukiji, a forza di frequentare il mercato, e com’è il loro lavoro visto da vicino. Parisi sarà a Faenza a Talk del Post a parlare di Giappone, di cibo e di gatti con Matteo Bordone e Francesca Crescentini (Tegamini), domenica 21 settembre alle 14.
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Una mattina del marzo 2005, prima che si alzasse il sole, mi trovavo al mercato di Tsukiji per la prima volta da quando mi ero trasferito a Tokyo. Ero insieme a un amico di Udine che all’epoca viveva qui, eravamo usciti la sera e nelle ultime ore della notte ormai diventata mattina due ragazze conosciute in un locale ci avevano proposto di andare al mercato del pesce di Tsukiji per fare colazione con il sushi.
Ci siamo così ritrovati nel capannone adibito a sede delle aste di tonni, in mezzo ai banditori e agli acquirenti (grossisti) che esaminavano i pesci. All’epoca il mercato non era ancora un’attrazione turistica e si poteva entrare ovunque senza che nessuno avesse niente da eccepire, anzi abbiamo attaccato discorso con i compratori all’asta, e loro ci hanno fatto vedere e toccare dei pezzi di polpa della coda di alcuni tonni per farci capire quanto grasso contenessero, forse disarmati dalla presenza di due ragazze in tenuta da serata. Abbiamo proseguito con una passeggiata tra i banchi del pesce in vendita e concluso la visita con una ricca colazione a base di sushi, poco fuori dalla zona interna del mercato. Intanto, cominciava ad albeggiare.
Da quella nottata ho cominciato a frequentare Tsukiji quando avevo voglia di fare acquisti in un posto unico: ci andavo quando mi ritrovavo sveglio troppo presto e non riuscivo a riaddormentarmi, oppure altre volte puntavo la sveglia e andavo a fare la spesa per una cena di pesce a cui invitare gli amici. Da subito mi hanno affascinato l’atmosfera, le interazioni con i venditori, i modi un po’ bruschi di chi già alle 6 di mattina sta lavorando da ore e non ha certo voglia di perdere tempo con gente che sia d’intralcio, e così Tsukiji per me è diventato negli anni uno di quei punti di riferimento che dai per scontato, una specie di luogo storico inamovibile.
Mentre nel resto di Tokyo vige la regola per cui “il cliente è Dio”, a Tsukiji mi è capitato di ricevere risposte sgarbate, essere allontanato in malo modo e a volte quasi spintonato. Chiaramente in tutte queste situazioni la colpa era mia: non ero ancora abituato agli spazi stretti e alle regole specifiche della precedenza da dare.
Allo stesso tempo, alcuni tra i venditori si incuriosivano, attaccavano bottone e si appassionavano alle mie ricerche ittico-culinarie, chiedendo ai colleghi se avessero il tipo di pesce che avevo chiesto a loro. In altri casi le mie richieste di un pesce particolare ricevevano la risposta ironica: «Sì, ce n’è quanti ne vuoi… nel mare! Ha ha ha».
Una volta, mentre cercavo una gallinella (chiamata “coccio” a Napoli e chissà in quanti altri modi nel resto d’Italia), un gruppetto di persone mi ha scortato in processione tra i banconi fino a trovarne uno dove c’era una gallinella ma, come mi ha detto il venditore con espressione contrita, «Purtroppo è appena morta». Ho risposto che la dovevo mangiare e non tenere come animale domestico. Qualcuno ha riso, qualcuno è rimasto impassibile. Ripassando settimane dopo, però, alcuni mi salutavano chiedendomi se l’avevo poi trovata: ero diventato lo straniero che cercava la gallinella.
Il mio rapporto con Tsukiji ha avuto una svolta quando un’amica mi ha fatto conoscere Kenken, un ragazzo che lavora nel capannone dove si tengono le aste dei ricci di mare. Mi ha preso in simpatia, visto che ha voluto subito parlarmi della sua grande passione: le freccette, vissute proprio come sport agonistico. Appena entrati nel suo “ufficio”, all’ingresso di un enorme capannone tutto refrigerato e chiuso con le porte da frigo, mi ha mostrato tutto fiero il cassetto della sua scrivania, dove teneva delle riviste specializzate piene di articoli e foto di professionisti del gioco delle freccette.
Diventando suo amico ho scoperto che i lavoratori del mercato hanno tutti dei soprannomi con cui sono chiamati sul lavoro, come succede nei piccoli paesi tra la gente che si vede ogni giorno. Frequentando Kenken (ovvero Zūsan per tutti quelli del mercato, dalla seconda sillaba del suo cognome Su-zu-ki, la zu allungata) ho capito che per entrare nella zona vendite è meglio essere attrezzati con vestiti resistenti alle macchie, facili da lavare, e stivali di gomma per evitare di bagnarsi con secchiate d’acqua, teste e interiora di pesce che a volte giacciono per terra o volano giù da banconi e carretti.
Girando con lui negli spazi angusti dove è esposta la merce, mi sono accorto che accanto ai rapporti di buon vicinato tra i banconi dei grossisti a volte ci sono inimicizie nate da chissà quali screzi del passato, e per non passare davanti allo spazio di qualcuno spesso si prende il giro lungo. Il mercato racchiude un po’ tutte le dinamiche umane che muovono una società, concentrandole nel suo spazio ridotto. Kenken/Zūsan mi ha presentato un suo collega, Naoki, che lavorava con uno dei rivenditori all’ingrosso. Il suo soprannome era Goma, come la foca pupazzo di un cartone animato a cui, effettivamente, assomiglia un po’. Al primo incontro Goma ci ha fatto salire sul montacarichi del suo negozio, con cui ci ha portato in giro per il mercato. Quando poi mi ha proposto di guidarlo sono quasi impazzito, quasi avessi la possibilità di essere Mario e guidare un kart speciale in un percorso esclusivo, fino ad allora bloccato. Questi muletti si chiamano tāre (ターレ, un adattamento dall’inglese “turret truck”) e sono onnipresenti nel mercato; davanti hanno un posto di guida in piedi e dietro un bancale per appoggiare le casse di polistirolo piene di mercanzia ittica. Sono senza sospensioni e si muovono velocissimi, infilandosi ovunque e mettendo in pericolo il visitatore a piedi – che in caso di incidente avrebbe anche torto. A Tsukiji infatti le regole della circolazione sono diverse dal resto della città: si può parcheggiare un po’ dove capita, andare in moto senza casco nell’area circostante, ignorare i tracciati stradali e le strisce pedonali; una specie di zona franca gestita quasi solo da uomini che hanno molto da fare e poco tempo per occuparsi di buone maniere e formalità.
La metafora che negli anni mi si è creata nella mente è che il mercato del pesce è per Tokyo come il cuore per un organismo, proprio come in Esplorando il corpo umano, il cartone animato in cui dei carrettini trasportano l’ossigeno e le sostanze vitali attraverso i vasi sanguigni. Nello stesso modo camion e furgoncini, motorini e cuochi arrivati in treno si radunano al mattino e poi con la merce comprata sono pompati in tutti gli angoli della città, fino a ristoranti nei vicoli più capillari di quartieri sperduti.
Negli ultimi anni Tokyo è diventata una meta turistica sempre più frequentata da stranieri e il mercato ha cercato di tenere fuori i visitatori che avrebbero intralciato, fotografato e invaso gli spazi senza per altro comprare mai niente. Sono comparse alcune guardie all’ingresso della zona interna di Tsukiji che in un inglese stentato dicevano «Maketto izu kurúzudo» (“The market is closed”), e a cui io rispondevo, in un giapponese ruvido e spazientito, che dovevo fare la spesa e che non mi facessero perdere tempo, ricevendo in cambio delle contrite scuse.
Ho sempre cercato di amalgamarmi anche visivamente al mondo del mercato in modo da non risaltare come un corpo esterno: ci vado in abiti da lavoro, con gli stivali di gomma e la cesta di bambù per gli acquisti; ho sviluppato un’andatura frettolosa e un modo di guardare la merce che comunica interesse nell’acquisto invece che lo stupore del turista estasiato dall’esoticità del posto. Ho cercato di imparare i nomi dei pesci, i loro cicli vitali e la stagionalità, i termini tecnici e gergali legati ai prodotti e ai prezzi, e anche i numeri – pare incredibile ma la lingua giapponese, che già ama confondere le idee con i numeratori che cambiano in base alla forma degli oggetti contati, ha un vocabolario diverso per i numeri cardinali se questi sono usati dai mercanti del pesce o dagli artigiani del sushi.
Cerco di non passare per lo sprovveduto che può essere fregato facilmente, contratto i prezzi anche se sono in svantaggio perché chiaramente la quantità che richiedo è poca rispetto a negozianti e ristoratori. Dopo aver scelto il pesce e contrattato il prezzo, si passa alla cassa alla quale quasi invariabilmente sta seduta una donna. Lì si riceve il primo vero “buongiorno” della mattinata, si paga e si ritira la merce.
La mia vittoria più grande è quando i venditori mi salutano con «Maido» (毎度), che significa letteralmente “ogni volta”, e di fatto è un’espressione di saluto riservata a chi già si conosce, nel senso che non si può proprio usare al primo incontro: significa insomma che si ricordano di me. Allora cerco di contenere l’entusiasmo, rispondo a mia volta «Maido» e me ne vado. Adesso sì che la mia giornata sarà buona.
© Utet 2025



