«Cosa gli passava per la testa?»

Un po' di risposte alla domanda che si sono fatte in molte, sentendo di uomini che hanno condiviso online foto intime di mogli, compagne e figlie

di Viola Stefanello

(Getty Images)
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Gli spazi digitali in cui gruppi di uomini condividono foto intime o sessualmente esplicite delle donne che conoscono senza che loro lo sappiano, chiedendo agli altri di commentarle e fare lo stesso, esistono da anni. Per esempio Phica.net, che è stato chiuso e poi sequestrato di recente, esisteva dal 2005 ed era conosciutissimo, soprattutto tra gli uomini. Tra Facebook, Reddit e soprattutto Telegram esistono migliaia di altri gruppi, più o meno difficili da trovare. Comportamenti di questo tipo – degradanti, violenti e talvolta illegali – avvengono spesso e volentieri anche su scala più piccola: nelle chat dedicate alla squadra di calcetto tra amici, in quelle tra compagni di liceo, e sul posto di lavoro.

È una cosa nota e tipicamente maschile, tanto che molti uomini la considerano normale, quasi naturale. Nelle ultime settimane molti utenti maschi hanno risposto in modo stupito e infastidito al fatto che Phica o il gruppo “Mia Moglie”, su Facebook, stessero ottenendo così tanta attenzione negativa. Tantissime altre persone (e sicuramente la grande maggioranza delle donne), però, sono estranee a queste dinamiche, e faticano a spiegarsele. Una domanda che si trova ancora e ancora, nelle sezioni dei commenti dedicate a questi temi, è: cosa passa per la testa degli uomini che animano questi spazi? Che spiegazioni psicologiche e sociali si possono dare ai loro comportamenti?

Trovare una risposta a queste domande non è semplice. Esistono pochi studi che si concentrano sulle motivazioni di chi perpetra questo genere di violenza online, e sono ancora meno gli uomini disposti ad ammettere di far parte di questi gruppi. Quando qualcuno viene “scoperto” e interpellato sul tema, di solito da compagne o amiche, risponde spesso che stava solo scherzando e che non è nulla di grave, oppure che non era in sé e non si riconosce più in quelle azioni.

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Antonello Arculeo, psicoterapeuta che da anni lavora a contatto con uomini che hanno commesso molestie e violenze nei confronti di donne, racconta di vedere spesso questo genere di confusione. «Per alcuni uomini spesso è difficile capire fino in fondo di aver commesso una violenza nei confronti di un’altra persona», racconta. «Un accusato di stalking, per esempio, può fare fatica a riconoscere che chiamare o citofonare costantemente a una persona è un atto violento: la reazione sembra loro esagerata. Nel mio lavoro tocchi con mano la difficoltà nel percepire la gravità delle proprie azioni».

Arculeo da anni fa parte del collettivo Maschile Plurale, un’associazione nazionale che dal 2007 in Italia contribuisce a promuovere un dibattito sull’identità di genere maschile. Dice che lui stesso si è sempre considerato una brava persona, ma soltanto negli ultimi anni, interrogandosi sulla matrice culturale dei propri comportamenti e sul loro impatto sulle altre persone, si è reso conto di essersi comportato male in svariate situazioni, e come questo sia legato alla propria maschilità.

«È come mettere degli occhiali: se impari a farlo, puoi cominciare a vedere il problema, a percepirlo e poi ad affrontarlo. Ma se non li indossi mai, ti manca totalmente la percezione di cosa è violenza e cosa non lo è», spiega. Uno degli uomini che ha in cura, per esempio, ha passato una notte intera a minacciare la moglie, dicendole che si sarebbe suicidato se lei l’avesse lasciato. «Lui ci ha detto che voleva essere una dimostrazione d’amore, non un atto di grandissima violenza quale invece è».

Marco Scarcelli, professore di Sociologia dell’università di Padova che da anni si occupa di mascolinità e della sua espressione online, conferma che nella sua esperienza moltissimi uomini – sia adulti che molto giovani – continuano a non avere affatto chiaro che condividere foto intime di persone senza il loro consenso è una pratica violenta, oltre che punibile per legge.

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Vari studi hanno mostrato che le vittime di questa pratica possono soffrire serie ripercussioni a livello sia psicologico che sociale, sviluppando sintomi clinici come depressione, attacchi di panico, ansia generalizzata e, nei casi peggiori, disturbo post traumatico da stress e ideazione suicidaria. Alcuni uomini lo sanno, e condividono queste foto apposta, come forma di punizione e vendetta nei confronti di una donna che magari li ha traditi, lasciati o rifiutati: è quello che viene chiamato revenge porn (anche se questa espressione poi è stata allargata più in generale a tutti i casi di condivisione non consensuale di materiali intimi).

In tantissimi casi, però, questa intenzione esplicita non c’è. Nel 2020, per esempio, un gruppo di ricercatori australiani chiese a 500 persone se avessero mai condiviso contenuti intimi altrui senza il loro consenso e, se sì, quali fossero state le loro motivazioni. Tra quelli che risposero di sì, il 44 per cento disse di averlo fatto perché la persona ritratta «era attraente»; il 28 per cento «per scherzare»; il 23 per cento perché era un comportamento accettabile; il 22 per cento «per vantarsi». Meno del 6 per cento degli intervistati disse di averlo fatto per vendetta o per fare del male alla persona ritratta.

Alcuni lo fanno non per disprezzo nei confronti di una donna in particolare, ma come reazione al fatto che, a livello sociale e interpersonale, negli ultimi decenni le donne hanno conquistato una libertà molto maggiore rispetto a quella che era stata loro concessa nei secoli precedenti, spesso smarcandosi dalla dipendenza dagli uomini. «Nel momento in cui scopriamo che le donne non vivono in nostra funzione, come uomini ci sentiamo esposti a una vulnerabilità. Vuol dire che le donne possono andarsene, possono lasciarci o dirci di no», dice Stefano Ciccone, professore e autore di vari libri sull’identità maschile.

In questo contesto, spiega Ciccone, molti uomini vivono questo genere di gruppi come uno spazio per ristabilire il proprio controllo e dimostrare di avere il potere di «sporcare [le donne] e consumarle». Una ricerca del 2020 che si concentra sull’utilizzo dei gruppi su Telegram per condividere immagini intime senza consenso, per esempio, osserva che in quei contesti «le preoccupazioni sul consenso vengono accantonate immediatamente attraverso l’ironia e la denigrazione delle donne: come scrive un partecipante, “l’importante non è il consenso, l’importante è che tutte le donne sono puttane”».

Secondo Ciccone, il fatto che su siti come Phica ci fossero molte foto di donne che lavorano in politica, nel giornalismo e sui media, o che si arricchiscono mostrando il proprio corpo su piattaforme come OnlyFans, è un esempio calzante. «C’è questa costante operazione maschile che ricorda alle donne: “tu potrai pure fare carriera e essere indipendente, ma rimani un corpo, ti riduco all’oggetto del mio sguardo».

Questo genere di rivendicazione e di volontà di ristabilire l’ordine tradizionale tra i generi si trova molto, per esempio, nei contenuti che circolano nella cosiddetta “manosfera”, termine che include al suo interno movimenti e persone diverse tra loro, accomunate dalla convinzione che gli uomini siano le vittime di un mondo ingiustamente a favore delle donne e che questa situazione sia dovuta a una società eccessivamente femminista. «Circola molto il messaggio secondo cui la libertà delle donne è una minaccia per gli uomini», riassume Ciccone. «E quindi tu metti in atto una reazione di controllo e di potere perché senti che è l’unica che ti può preservare».

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Su siti come Phica e gruppi come “Mia Moglie”, però, c’erano anche tanti uomini che non si considerano parte di un movimento politico ostile ai diritti delle donne, né che direbbero in alcun modo di odiarle, le donne. Al contempo, molti le percepiscono comunque come una proprietà personale, di cui disporre a piacimento, dice Scarcelli: «Per tanti, l’affermazione dell’eterosessualità passa anche dall’idea di condividere le foto delle donne con cui hanno delle relazioni». Durante le sue interviste con i ragazzi delle superiori, per esempio, in molti gli hanno detto che condividono le foto intime delle loro fidanzate con gli amici per mostrare ai coetanei il proprio valore come maschi, perché «avere successo con le donne è un atto di affermazione maschile».

«Anche quando ti dicono che non lo farebbero mai, ti spiegano che è perché quella è la loro ragazza, e non vogliono condividere con gli altri un corpo che è loro», continua Scarcelli. «Non ti dicono mai “non le mostro perché a lei non farebbe piacere”». Gruppi come “Mia Moglie”, a suo avviso, rispondono alle stesse funzioni sociali: mostrare un proprio possedimento e, di conseguenza, sentire che il proprio status sociale è stato rafforzato e confermato dagli altri.

Scarcelli aggiunge che a suo parere in questi casi molti uomini non pensano alle conseguenze che le loro azioni in questi gruppi possono avere sulle donne ritratte, non solo perché lo considerano normale, ma anche perché non sono stati abituati a esercitare empatia nei confronti di soggetti diversi da loro. «C’è una sorta di indifferenza rispetto all’altro. Non è che ti odio o ti faccio del male perché è ciò che voglio fare: è che se tu sei la mia ragazza io sento di poter mettere le tue foto in giro perché per me sei un accessorio della mia vita privata. Ti mostro agli altri liberamente come se fossi un orologio», spiega Scarcelli.

A tutto questo si aggiunge il fatto che in gran parte dei contesti di soli uomini (detti, in sociologia, “omosociali”) questi comportamenti non sono sanzionati, ma piuttosto incoraggiati. «Magari tu non manderesti la foto della tua compagna, ma se lo fa qualcun altro nel gruppo del calcetto devi ridere, fare la battuta, altrimenti sei un moralista e uno sfigato», dice Ciccone. «E questo ci parla di una certa miseria maschile, di un’incapacità di comunicare tra sé in modo empatico che porta a preferire la competizione e una complicità superficiale».

Scarcelli racconta che, quando parla con i ragazzi delle superiori di queste cose, il tema del senso di cameratismo emerge spesso: «Mi dicono che loro, lì dentro, possono “essere veramente maschi”: non sono strani, non sono sbagliati, se tutti gli altri stanno facendo i maiali possono farlo anche loro. Sono legittimati dal fatto che non si sentono più in minoranza».

C’è, poi, una riflessione da fare sul ruolo svolto dall’anonimato online, dice Manolo Farci, sociologo dell’università di Urbino che da anni studia l’impatto della comunicazione digitale nei processi di costruzione sociale dell’identità di genere maschile. Il fatto di pubblicare post e commenti in anonimo su siti come Phica o gruppi di sconosciuti su Telegram e Reddit «crea un meccanismo che si chiama dissociazione immaginativa», spiega. «Vuol dire che molti sono perfettamente in grado di concepire ciò che fanno online come qualcosa di separato da ciò che loro sono offline». Nella sua esperienza, questo meccanismo aiuta le persone a distanziarsi dai propri comportamenti, percependoli effettivamente come un gioco di ruolo, una forma di intrattenimento o una forma di esplorazione dei propri lati peggiori che non mostrerebbero, però, alle persone che conoscono offline.

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