Capire gli enormi problemi di Prato

La mafia cinese, il comune commissariato, la crisi del distretto tessile più grande d'Europa e un carcere disastrato: negli ultimi mesi sembra che stia succedendo tutto lì

di Laura Fasani

Prato vista dalla terrazza di Palazzo Pretorio, un tempo sede del comune e oggi museo civico, 14 agosto 2025 (Laura Fasani/il Post)
Prato vista dalla terrazza di Palazzo Pretorio, un tempo sede del comune e oggi museo civico, 14 agosto 2025 (Laura Fasani/il Post)
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A Prato stanno succedendo tantissime cose insieme, un po’ legate tra loro e un po’ no: la città è commissariata perché l’ex sindaca si è dimessa dopo essere stata accusata di aver favorito un imprenditore del settore tessile, settore di cui a Prato c’è il distretto più grande d’Europa e che intanto sta vivendo una grossa crisi. È pieno di problemi anche il settore dell’abbigliamento, dominato da imprenditori cinesi che spesso sfruttano i lavoratori e che hanno legami con la criminalità organizzata cinese, all’interno della quale sono molto aumentati gli scontri tra gruppi criminali. Nel frattempo si attendono gli esiti di un’altra inchiesta, sulle alluvioni che fecero morire due persone e causarono tantissimi danni; e anche il carcere della città ha molte criticità, che vanno avanti da tempo.

Tutto questo si inserisce in un contesto complesso, poco noto al di fuori della Toscana. Prato ha quasi 200mila abitanti, è una città grande, tra le più grandi del Centro Italia. Al suo interno accadono fenomeni sociali ed economici enormi, che vanno molto al di là della dimensione locale (è una di quelle città che vengono spesso definite “laboratorio”). I più evidenti hanno a che fare proprio con il distretto tessile e quello dell’abbigliamento (che spesso nei discorsi vengono appaiati, ma non sono la stessa cosa), e poi con l’elevata presenza di abitanti con diverse nazionalità: a Prato c’è la seconda comunità cinese più numerosa d’Italia dopo Milano, ma molto maggiore se si considera rispetto alla popolazione.

Nonostante la rilevanza dei temi, è una città che raccoglie generalmente poche attenzioni a livello nazionale, anche per il fatto che è quasi attaccata alla assai più considerata Firenze (le separa una ventina di chilometri). Tutti i problemi fin qui elencati sono difficili da affrontare per un’amministrazione locale, che ha poteri limitati. Inevitabilmente, però, viene chiesto soprattutto al comune di risolverli perché condizionano ogni giorno la vita delle persone, anche se a Prato in questo momento non c’è un’amministrazione nel pieno delle sue funzioni.

Il comune di Prato, 13 agosto 2025 (Laura Fasani/il Post)

La sindaca Ilaria Bugetti si è dimessa a giugno, dopo l’apertura dell’indagine nei suoi confronti, e da metà luglio c’è un commissario straordinario, Claudio Sammartino. Resterà in carica fino alle prossime elezioni, che non si sa ancora quando saranno: Bugetti era stata eletta solo un anno fa (con un buon margine, prendendo più del 52 per cento dei voti), e ora è probabile che si debba aspettare almeno la primavera del 2026.

La sensazione di incertezza a Prato è aumentata, così come la difficoltà di individuare chi debba farsi carico dei molti problemi.

Giampiero Nigro, ex docente di storia economica all’università di Firenze, dice che oggi Prato vive una sorta di «freno psicologico». Nigro conosce bene Prato: negli anni Ottanta, quando stava cominciando la fase discendente del distretto tessile e iniziavano ad arrivare i primi immigrati dalla Cina, è stato anche vicesindaco e assessore alla Cultura. Dice che Prato continua a fondare la sua identità sull’industria tessile, e quindi risente ancora parecchio di quello che accade all’interno del distretto, che è appunto in crisi.

Le nuove inchieste giudiziarie, secondo Nigro, hanno reso Prato una «città indebolita e obnubilata».

La basilica di Santa Maria delle Carceri e il Castello dell’Imperatore, in un centro città deserto, il 14 agosto 2025 (Laura Fasani/il Post)

Molti problemi di cui si discute ora a Prato, tra cui l’illegalità diffusa tra le aziende di abbigliamento cinesi, le difficoltà del carcere cittadino e la crisi del distretto tessile, vanno in realtà avanti da tempo. Secondo la procura, che sta seguendo queste vicende con varie inchieste giudiziarie, sono cambiate in particolare due cose, entrambe nell’ultimo anno: si sono intensificati gli episodi violenti tra gruppi criminali e la situazione in carcere è peggiorata.

È cambiata per la verità anche un’altra cosa, e cioè il procuratore stesso: circa un anno fa al tribunale di Prato è arrivato Luca Tescaroli dalla direzione distrettuale antimafia di Firenze, dopo una carriera in cui tra le altre cose aveva fatto parte dell’accusa in grossi processi, come quelli per la strage di Capaci del 1992 e di “Mafia Capitale”.

Il tribunale di Prato, 14 agosto 2025 (Laura Fasani/il Post)

Da quando c’è lui, sul sito della procura di Prato vengono pubblicati con elevata frequenza comunicati che aggiornano su quello che fa la procura, quindi sulle varie indagini in corso. All’inizio di ogni comunicato viene premesso che la divulgazione è dovuta alla rilevanza dei fatti raccontati e al loro interesse pubblico. Per la solerzia con cui Tescaroli informa in questo modo anche i giornalisti, l’Associazione stampa toscana gli ha conferito di recente una sorta di premio. C’è stata un po’ di polemica al riguardo dopo un articolo del Foglio, che criticava il modo di comunicare di Tescaroli e che definiva il premio un esempio emblematico della «sudditanza del mondo dell’informazione alle procure».

Tescaroli dice che la sua è una «strategia comunicativa», che ha l’obiettivo di rafforzare la consapevolezza delle persone e informarle delle iniziative della procura sulla «pericolosità del fenomeno». Il procuratore si riferisce in particolare alle indagini sulla criminalità organizzata cinese, alle aggressioni, agli attacchi incendiari, alle intimidazioni e agli omicidi avvenuti negli ultimi mesi. Se n’è parlato parecchio facendo rientrare tutto in quella che è stata chiamata dai giornali, con un’espressione un po’ romanzesca, “guerra delle grucce”: indica appunto la lunga serie di scontri violenti tra gruppi criminali che puntano a controllare la produzione di grucce e più in generale il mercato della logistica dell’abbigliamento.

Lo stesso Tescaroli ne sta parlando molto anche perché punta ad ampliare il numero di persone che decidono di collaborare con la procura raccontando quello che sanno, e per le quali sta cercando di ottenere tutele simili a quelle garantite ai collaboratori di giustizia: finora sono state 90, 85 lavoratori e 5 imprenditori.

Le vicende non riguardano solo Prato: secondo chi indaga sarebbero stati commessi crimini legati a gruppi mafiosi cinesi che operano a Prato ma anche a Roma, Parigi e Madrid.

Stando alle ricostruzioni della procura, questi gruppi sono organizzati in modo gerarchico, su base familiare, hanno rapporti con la mafia italiana e agiscono come clan mafiosi a loro volta. Le indagini non riguardano solo le attività imprenditoriali in cui sono attivi ma anche lo sfruttamento della prostituzione, il favoreggiamento dell’immigrazione, il gioco d’azzardo e la contraffazione.

Sui bidoni sono incollati annunci di ragazze che si prostituiscono: è molto facile vederne di simili nei dintorni di via Pistoiese, 13 agosto 2025 (Laura Fasani/il Post)

Secondo la procura di Prato esiste inoltre un sistema di riciclaggio di denaro ben consolidato, basato sull’apertura di società cartiere che vendono merce fatta arrivare dalla Cina; queste società evadono l’IVA, sfruttano i lavoratori, chiudono dopo due o tre anni per riaprire con un altro nome e proseguono quello che facevano prima. Il denaro ottenuto dai profitti di queste aziende, sempre secondo la procura, verrebbe poi raccolto tramite banche clandestine e inviato in Cina in contanti o con le criptovalute.

I legami con la Cina sono molti e dipendono dalla storia dell’immigrazione a Prato. Su poco meno di 200mila residenti il 25,42 per cento è di origine straniera: tra questi oltre 32mila sono di nazionalità cinese, ma si stima ce ne siano tra i 20mila e 40mila in più non regolari.

Molte persone di origine cinese vivono in un quartiere appena fuori dal centro storico, che comincia dopo Porta Pistoiese (a nordest del centro) e si sviluppa attorno alla lunga via Pistoiese. Qui la maggior parte di negozi, lavanderie, ristoranti, supermercati e agenzie di viaggio è cinese. In mezzo alle case ci sono cancelli, spesso aperti, dietro i quali file di capannoni si affacciano su una strada interna dove sono parcheggiati diversi SUV. Un tempo questi spazi appartenevano ai pratesi del tessile. Oggi molti sono stati affittati o venduti a imprenditori cinesi, che dentro hanno aperto sartorie, stamperie e altre attività connesse al confezionamento di abiti.

Una tavola calda in via Pistoiese con l’insegna che fa riferimento a Wenzhou, la città da cui partirono negli anni Ottanta i primi migranti cinesi stabilitisi a Prato, 14 agosto 2025 (Laura Fasani/il Post)

Per capire quanto sia diventata importante l’industria dell’abbigliamento a conduzione cinese basta un dato: a Prato il numero di aziende di articoli di abbigliamento con un amministratore nato in Cina ha superato quello di tutte le ditte che fanno tessuti, cioè quelle del comparto industriale di Prato famoso da secoli nel mondo. Le prime sono 4.836, le seconde 2.320, e comunque 492 di queste sono cinesi (i dati della Camera di Commercio sono aggiornati al 9 agosto).

Camminando per via Pistoiese si nota spesso sulle insegne dei locali il riferimento a Wenzhou, una città costiera nella provincia dello Zhejiang, a sud di Shanghai, in Cina. «È da questa zona che arrivarono inizialmente in Italia i primi immigrati cinesi già dagli anni Venti», dice Roberto Pecorale, professore di cinese. «A Milano, Prato e in Emilia-Romagna iniziarono ad arrivare in modo massiccio negli anni Ottanta, quando a Wenzhou ci fu una fase di forte sviluppo economico: emigrarono le persone che vivevano nelle periferie di campagna, che non furono in grado di sostenere l’aumento del costo della vita».

Via Fabio Filzi, nei dintorni di via Pistoiese, vista dall’autobus, 14 agosto 2025 (Laura Fasani/il Post)

I migranti cinesi andarono a Prato essenzialmente perché c’era lavoro e c’era anche la possibilità di creare nuove imprese. Il movimento avvenne tramite il passaparola tra parenti e conoscenti che man mano si stabilirono in città. Inizialmente per arrivare in Italia le persone erano costrette a contrarre debiti con agenzie illegali, che di fatto operavano una tratta di esseri umani, e che poi dovevano ripagare lavorando in attività gestite da connazionali per alcuni anni, in un regime di quasi schiavitù o di schiavitù e basta.

Oggi probabilmente condizioni paragonabili a quelle non esistono più, ma ci sono comunque gravi accuse di sfruttamento verso molte aziende a conduzione cinese nel settore dell’abbigliamento, in particolare quelle che producono confezioni per abiti. Sono la maggioranza, e generalmente sono piuttosto piccole, tra i 10 e i 15 dipendenti. Tra la fine di maggio e l’inizio di giugno il sindacato Sudd Cobas aveva organizzato diversi scioperi consecutivi per protestare contro le condizioni di lavoro precarie, denunciando situazioni in cui le persone lavoravano 12 ore al giorno tutti i giorni, con contratti senza tutele e spesso in nero. I lavoratori di queste aziende non sono solo cinesi, ma spesso anche pakistani, bangladesi e afghani. Dopo gli scioperi alcune aziende avevano proposto contratti a tempo indeterminato e con orari equi, ma per risolvere il problema servirebbe un’azione ben più ampia.

Negli anni le istituzioni locali e regionali hanno provato a contrastare lo sfruttamento con una serie di provvedimenti. Nel 2014 la Regione Toscana approvò il Piano Straordinario Regionale per il Lavoro Sicuro (2014-2019), con cui puntava a intensificare i controlli sulle attività a conduzione cinese. Il piano venne adottato dopo che nel dicembre del 2013 cinque uomini e due donne erano morti in un incendio di un capannone che ospitava la ditta di confezionamento di vestiti Teresa Moda, dove le persone lavoravano e vivevano in condizioni degradanti.

Oggi si sa che difficilmente i controlli hanno un effetto duraturo: vengono fatti, le ditte chiudono ma riaprono velocemente altrove (è facile nella pratica: dal momento che non producono i tessuti, ma li confezionano soltanto, non hanno macchinari ingombranti da trasportare da un posto all’altro).

La targa in memoria delle persone morte nell’incendio del Teresa Moda nel 2013 realizzata dal sindacato Sudd Cobas tra i capannoni di via Toscana, 13 agosto 2025 (Laura Fasani/il Post)

Nel 2018 il comune di Prato e la procura firmarono il Protocollo d’intesa in materia di prevenzione e contrasto dei fenomeni di sfruttamento lavorativo e di tutela delle vittime. L’obiettivo era creare una rete tra i vari enti attivi nel contrasto allo sfruttamento così da facilitare le segnalazioni, le indagini e l’inserimento delle persone sfruttate in un percorso di tutela. In questo contesto è stato aperto anche lo Sportello antitratta del comune di Prato, dove chi vi accede può ricevere informazioni sui percorsi di tutela disponibili e sulla possibilità di essere inseriti nei progetti di accoglienza.

Il Protocollo è stato rinnovato nel 2021 ed è scaduto il 31 dicembre del 2024. Le discussioni per rinnovarlo però sono andate avanti un po’ a rilento e si sono arenate con lo scioglimento dell’amministrazione comunale.

Il governo nazionale invece ha deciso di intervenire sui problemi di Prato con un approccio securitario. Il giorno di Ferragosto si è riunito nella prefettura di Prato, un po’ simbolicamente, il comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica: lo ha presieduto il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, che ha detto di aver scelto Prato come sede perché, tra le altre cose, ha «qualche problema di contrasto alla criminalità organizzata». Sulla città ha detto che «daremo qualche segnale nei prossimi mesi di consolidamento e rafforzamento anche di quelle che sono le strutture operative e investigative di questo territorio», senza dare altre spiegazioni.

L’ingresso del carcere La Dogaia, 14 agosto 2025 (Laura Fasani/il Post)

Ed è sempre il governo che dovrebbe occuparsi del carcere cittadino La Dogaia, su cui la procura di Prato ha di recente aperto diverse indagini legate tra le altre cose a un contrabbando di telefoni e sostanze stupefacenti, aggressioni ed evasioni. La composizione dei detenuti è complessa: ci sono sezioni dell’alta e media sicurezza, diversi hanno problemi psichiatrici o di tossicodipendenza, dalla pandemia molti con problemi di ordine e sicurezza sono stati trasferiti lì da altre carceri. È in una zona periferica a nordovest che solo da poco si può raggiungere in autobus dal centro.

Per il resto molti problemi della Dogaia non sono diversi da quelli di altre carceri italiane: è sovraffollato, mancano beni di prima necessità come il sapone per lavarsi, e le condizioni igieniche sono pessime.

Il problema principale della Dogaia però è che il personale è insufficiente: non ci sono abbastanza funzionari, dirigenti e agenti, e molti di loro cambiano spesso, cosa che genera una mancanza di coordinamento dell’organico. Da tempo manca persino un direttore pienamente operativo: fa da reggente Patrizia Bravetti, che però se ne andrà a fine mese. Già un anno fa la sindaca di Prato, Ilaria Bugetti, e il presidente del consiglio comunale Lorenzo Tinagli, che seguiva molto le vicende del carcere cittadino, avevano scritto al ministro Carlo Nordio per presentarne i diversi problemi, a partire da quello dell’organico. Finora non ci sono stati cambiamenti.