L’Italia perde un sacco di soldi per colpa delle leggi scritte male

Un gruppo di economisti ha stimato il costo di frasi lunghe, contorte e difficili da interpretare: sono venuti fuori tanti miliardi

(Mauro Scrobogna / LaPresse)
(Mauro Scrobogna / LaPresse)
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In giurisprudenza c’è un principio imprescindibile, sancito anche dall’articolo 5 del codice penale: «ignorantia iuris non excusat», cioè non si può dire a propria discolpa di non conoscere la legge. Il «non lo sapevo» non vale, così come di conseguenza non vale il «non ho capito che c’è scritto», una reazione molto comune quando i non esperti si cimentano nella lettura di un testo di legge. È una reazione più diffusa di quanto si pensi anche tra i giuristi: è il risultato di testi inutilmente lunghi e arzigogolati, pieni di rimandi normativi e incisi, spesso molto difficili anche solo da leggere, prima ancora che da interpretare.

Non è solo una questione di stile. La pessima scrittura delle leggi italiane crea una generale incertezza normativa per persone comuni e imprese che quelle leggi le devono rispettare, e ambiguità nel lavoro dei giudici che le devono interpretare. Un gruppo di economisti ha provato a calcolare quanto questa incertezza freni gli investimenti e l’innovazione, e ha stimato che ogni anno le leggi scritte male costino 110 miliardi di euro di mancata crescita economica: con leggi chiare e comprensibili il Prodotto Interno Lordo italiano sarebbe più alto del 5 per cento. E le cose, a loro dire, vanno sempre peggio.

Gli economisti sono Tommaso Giommoni, Luigi Guiso, Claudio Michelacci e Massimo Morelli: a giugno hanno pubblicato sul tema un working paper, cioè una ricerca non ancora formalmente revisionata e pubblicata dalle riviste scientifiche, ma che viene intanto diffusa per raccogliere le opinioni della comunità accademica e per contribuire al dibattito. L’hanno pubblicato recentemente anche sul sito lavoce.info.

L’ipotesi di fondo è che l’incertezza normativa sia un ostacolo alla crescita economica. Non è solo un’ipotesi molto plausibile: che la qualità delle istituzioni sia essenziale per la crescita è documentato da anni di ricerca economica (ed è anche il contributo più importante dell’ultimo premio Nobel per l’Economia). Lo dimostra anche la storia industriale italiana, piena di contenziosi legali eterni e di imprese che alla fine lasciano il paese per andare altrove, dove le condizioni sono meno cervellotiche.

(Mauro Scrobogna/LaPresse)

Un’azienda, magari straniera, che vuole valutare un nuovo investimento in Italia deve impiegare molto tempo e risorse anche solo per capire se può farlo, quali sono i vincoli e la burocrazia. E se anche ci riesce si espone a conseguenze giuridiche imprevedibili, sia perché può aver capito male il contenuto di una legge scritta male, sia perché l’interpretazione può essere molto diversa da giudice a giudice in tribunale. Spesso è più conveniente rinunciare, con la conseguenza che l’Italia perde la possibilità di crescere, innovare, e ottenere nuovi posti di lavoro.

Questa premessa è alla base di tutto lo studio, che si articola poi in due passaggi: prima è stata fatta la stima di quanto la qualità delle leggi incida sulla generale percezione di incertezza giuridica (che è il risultato di molte altre cose, tra cui per esempio la durata eccessiva dei processi e la capacità di esecuzione delle pene); poi i quattro economisti hanno calcolato l’impatto di questa incertezza sulla crescita economica.

La prima parte consiste in un enorme lavoro di analisi linguistica di tutte le leggi italiane: oltre 75mila leggi, per un totale di 97 milioni di parole. Per misurarne la qualità nella scrittura hanno usato una serie di indicatori stilistici menzionati nei manuali di scrittura giuridica: la lunghezza delle frasi, la loro struttura, la frequenza dell’uso di incisi e dei riferimenti normativi, tra gli altri. Tutti questi parametri sono stati poi sintetizzati in un unico indicatore che stima quanto una legge è scritta bene o male, con chiarezza o ambiguità. Dall’analisi viene fuori un quadro sconfortante.

L’85 per cento delle frasi è più lungo di 25 parole, una soglia oltre la quale gli esperti di linguaggio giuridico sostengono che sia a rischio la chiarezza dell’esposizione. Per avere un’idea: è anche il caso della frase appena conclusa.

In cento parole ci sono in media quattro rimandi ad altre leggi, una pratica che secondo i manuali di scrittura giuridica sarebbe da limitare il più possibile: una legge che si regge su troppe leggi precedenti è poco autonoma, più difficile da interpretare e più incline ad ammettere interpretazioni diverse e potenzialmente contrastanti da parte dei giudici. Alcune leggi hanno un’altissima concentrazione di gerundi, cioè di verbi che finiscono in -ando o -endo e che sono funzionali alla scrittura di lunghissimi e complicati preamboli.

La senatrice Elena Testor e il senatore Claudio Borghi alla riunione della Commissione bilancio del Senato per l’esame dell’ultima legge di bilancio, lo scorso dicembre (Mauro Scrobogna / LaPresse)

Lo studio indica che la qualità delle leggi è costantemente peggiorata soprattutto negli ultimi trent’anni. Un contributo potrebbe averlo dato anche il continuo ricorso alla cosiddetta decretazione d’urgenza: è l’uso smodato da parte dei governi di decreti-legge, atti che diventano leggi dopo una limitata discussione parlamentare e che dovrebbero essere usati solo per questioni urgenti. I governi italiani ne abusano da tempo, e questo secondo gran parte dei giuristi contribuirebbe alla produzione di leggi frammentate, scritte di fretta e senza una visione complessiva.

Per cercare di misurare quanto la qualità della scrittura giuridica contribuisca a creare incertezza, i quattro economisti hanno usato gli appelli alla Corte di Cassazione, l’ultimo grado di giudizio nella giustizia italiana a cui le parti possono rivolgersi per verificare il corretto svolgimento dei processi di grado inferiore, l’operato dei giudici, e il modo in cui hanno interpretato la legge. La Cassazione può di fatto confermare o annullare le sentenze dei tribunali di grado inferiore (di primo o di secondo): per gli autori dello studio questa facoltà è un indicatore utile per valutare quanto la legge italiana si presta a più interpretazioni. È quasi un «esperimento ideale nel quale a due giudici viene chiesto di interpretare la stessa legge nello stesso caso sulla base di prove identiche», scrivono.

Gli autori hanno calcolato che la probabilità che la Cassazione sia in disaccordo con le sentenze presentate è in media del 30 per cento: la probabilità sale al 36 quando i casi si basano su leggi scritte male, mentre scende al 24 con leggi più chiare.

Una volta calcolato quanto le leggi sono scritte male e quanto questo crei incertezza normativa, gli autori hanno usato i risultati per provare a capire che ricadute abbia sull’economia.

Il palazzo della Corte di Cassazione, a Roma (Mauro Scrobogna/LaPresse)

L’incertezza in generale è l’elemento che più di tutti inibisce la capacità di un’economia di crescere, e per questo la letteratura economica se ne occupa da sempre. A prescindere da cosa la causi – le guerre, una pandemia, o appunto un contesto normativo complicato – il funzionamento è sempre lo stesso: aziende e consumatori in preda all’incertezza, nel dubbio, preferiscono non prendere decisioni di investimento o consumo, e l’attività economica rallenta.

Lo specifico ruolo dell’incertezza normativa sull’economia è però ancora poco studiato, e la ricerca in questione è dunque abbastanza innovativa: senza entrare troppo nei dettagli del metodo con cui sono arrivati al risultato, i quattro economisti hanno stimato che «se tutte le leggi italiane fossero scritte con la stessa chiarezza dei principi fondamentali della Costituzione, il PIL italiano sarebbe oggi più alto di circa il 5 per cento, pari a quasi 110 miliardi di euro all’anno». Secondo le loro stime in un contesto simile «le nuove imprese nascono più piccole e che le aziende già attive hanno una probabilità maggiore di fallire».

C’è poi una questione ulteriore, che lo studio non analizza: quanto le leggi scritte male ostacolino la pubblica amministrazione e i tribunali, con conseguente dispendio di tempo e risorse pubbliche, un freno ulteriore alla crescita.

Della necessità di semplificare lo stile delle leggi si parla da tempo tra i giuristi, e ci sarebbero pure organi preposti proprio a controllarlo. Nel 1997 fu istituito il Comitato per la legislazione, un organo della Camera composto da dieci deputati scelti in numero uguale fra quelli di maggioranza e opposizione: hanno il compito, tra i vari, proprio di verificare se decreti legge e disegni di legge siano scritti in modo comprensibile. Nel 2022 è stato creato un organo simile anche al Senato.

Il loro ruolo è però marginale: l’ultimo rapporto dice che tra settembre 2023 e luglio 2024 solo un quinto delle condizioni e neanche il 10 per cento delle osservazioni fatte sono state recepite dal parlamento. Un risultato che dipende anche dal fatto che nel 40 per cento dei casi il Comitato si è espresso su provvedimenti in lettura finale: per le modifiche quindi non c’era più tempo. Negli altri casi significa che i parlamentari erano stati informati del fatto che stavano approvando norme poco comprensibili, ma hanno deciso di approvarle lo stesso, inalterate.

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